La lente di Alberti illumina i Vingt Regards di Messiaen

MANTOVA Da lassù, dopo una scalata lunga due ore di musica senza fiato, tutto appare diverso. Dalle tenebre iniziali, in cui lo sguardo del Padre si dilata irradiandosi benevolo sull’oscurità di un universo in ascolto, al trionfo conclusivo in cui tutto è luce, gioia, umanità festante. In mezzo, un affresco grondante, visionario, straordinariamente materico, con cristalli sonori che come lame fendono l’aria e i suoi volteggianti pulviscoli, canti di uccelli, barbarica ebbrezza, terrificante angoscia. Poche opere sanno cantare con tanta ispirata devozione l’istante e l’eterno, l’ora e sempre. I Vingt Regards sur l’Enfant Jésus è opera-monstre che Olivier Messiaen consegna alle stampe all’indomani della fine del secondo conflitto mondiale. Venti tessere, altrettante stazioni scolpite in una scrittura che sembra voler portare sulla cordiera del pianoforte il magma del tempo, la complessità del mondo e, con esso, le sue contraddizioni. Tenerne insieme i fili, le voci, i temi che passano e tornano, sempre uguali, sempre diversi, significa avere gambe di ferro, fiato da maratoneta e muscoli d’acciaio, ma anche uno sguardo capace di penetrare la fitta oscurità di una carne viva e perennemente mutante, ora incandescente ora sospesa in mistico abbandono. Dopo lo straordinario Stockhausen di Stimmung, lo scorso 18 settembre nella cornice della Basilica di S. Barbara, MantovaMusica – nella sua declinazione più avanzata verso i territori del XX secolo quale è Eterotopie – ha estratto dal cappello magico un’altra pietra miliare del Novecento, affidandola alla lettura asciutta e lucida, straordinariamente sorvegliata, di Alfonso Alberti. Interprete da sempre rivolto all’investigazione dei linguaggi contemporanei, attento ad una missione insieme divulgativa ed analitica di un patrimonio imprescindibile ma ancora troppo scomodo e ingombrante, il pianista milanese ha tenuto il numeroso pubblico intervenuto avvinto alla forza della sua narrazione. Un racconto asciugato da quella straripante opulenza che la penna di Messiaen imprime su un pianoforte cosmico; piuttosto, una lente di precisione puntata nei risvolti della pagina, a scandagliarne il fondo, a coglierne i richiami sottesi, i ritorni, i presagi, quasi a farne la bussola di un labirinto cifrato, coraggiosamente espugnato a memoria. Di grande suggestione, mentre le ombre si allungavano, il gioco di luci ad illuminare i vari Regards, quasi a contrappuntarne la tinta con suggestive pennellate cromatiche. E quando nel cielo messianico ormai splendeva, vittoriosa, trionfante, la luce della definitiva salvezza e sul ciclo si imprimeva il suggello conclusivo, la notte calava sulle pietre gonzaghesche. Due ore di estenuante, commovente bellezza prima di uscire, a riveder le stelle.
Elide Bergamaschi