Narek Hakhnazaryan e Georgy Tchaidze intensi alle Serate Musicali di Milano

MILANO La sezione aurea del camerismo, o qualcosa ad essa molto vicino. L’incontro tra due temperamenti straripanti, torrenziale l’uno, più sottilmente insinuante l’altro, fiamma e vento capaci di soffiare sul distillato di un secolo di letteratura musicale e di accenderne, mutevole, vivo, il miracolo. Dopo la serata dello scorso anno, per chi c’era, ritrovare in cartellone Narek Hakhnazaryan e Georgy Tchaidze era quasi scontato, se non necessario. Troppo intensi, nel loro inesorabile cercarsi, chiamarsi, rintuzzarsi, per sparire dopo una sola occasione di ascolto. Così, lo scorso 13 marzo, le Serate Musicali di Milano hanno richiamato sul palco della Sala Verdi del Conservatorio la Medaglia d’Oro al Concorso Čajkovskij del 2011 e il trionfatore all’Honens di Calgary e al Top of the World di Tromsø, rispettivamente nel 2009 e nel 2015. Questa volta, l’impaginato prendeva avvio nel segno del crepitare affabile che abita lo Schumann dell’Adagio e Allegro op.70, con il suo canto tutto sul fiato, stagliato sulla frase viva, plasmato come mercurio dall’arco parlante del violoncellista armeno. Uno strumento nell’altro, in una compenetrazione che nell’Allegro, serrato, morso da un incalzare segreto, si faceva gioco scapricciato di pura bellezza, divertimento della fantasia, danza di mani e di pensieri, prima di proiettarsi su ben altre atmosfere. Bastavano infatti poche battute e, di colpo, l’aspra, folleggiante leggerezza schumanniana lasciava il passo alla pietra sepolcrale dell’op. 38 di Brahms, all’incedere esitante, rifranto, dei suoi passi che si addentrano nel mistero. Un altro mondo, delineato con altro pennino, tenuto sul filo da un senso della misura capace di intrecciare con sovrana autorevolezza le opposte anime del dolente e del leggiadro. E che incanto il secondo movimento, chiamato a raccogliere lo svaporare malaticcio del primo e a travasarlo in passi di danza. Una danza amara, stucchevole, disillusa; lo spettro di ciò che eravamo. In questo gioco di fioretto, delicato e pungente, malanconico ma non arreso, era il pianoforte di Tchaidze – che di lì a poco, nel fugato conclusivo della Sonata e, ancor più, nell’apoteosi del turgido, grandioso polittico di Rachmaninov, sarebbe autenticamente salito in cattedra e avrebbe scolpito la narrazione con il granito di un’articolazione millesimale – a tessere la tela attorno al violoncello. Un pianoforte pronto a dare tinta e fondale, profondità e scintilla al racconto, che, nell’op. 19 del compositore russo, invitava Hakhnazaryan a dilagare, immenso, crepuscolare, nelle praterie di una scrittura straordinariamente densa che nel quarto movimento si faceva rapinosa, imprendibile nel guizzo che la divorava. Appalusi scroscianti per una serata da ricordare, suggellata da un’intrigante miniatura, imbevuta di puro, selvatico folklore armeno, firmata da Aleksandr Spendjarov.

Elide Bergamaschi