Omaggio ad Olivier Messiaen

LA ROQUE D’ANTHERON L’istante e l’Eterno. Sono trascorsi 30 anni dalla scomparsa di Olivier Messiaen e ancora la sua torreggiante figura di patriarca del nostro tempo sta lì, visionaria e lucidamente impietosa, a guardarci e ad interrogarci attraverso la sua opera. Nella sua rutilante programmazione che, per quattro settimane fino al prossimo 20 agosto, vedrà il Luberon meta di quasi centomila visitatori, il Festival de Piano de La Roque d’Anthéron non poteva dimenticare l’omaggio sentito ad uno dei pilatri dell’identità musicale francese. E come sempre lo ha fatto nel segno di quella sincerità che è in questa rassegna patrimonio umano, prima ancora che artistico. Messiaen non solo come faro sommo di un orizzonte compositivo ed intellettuale che con lui ha trovato uno straordinario grandangolo, ma qui, nel dedalo di generazioni che da 42 anni si incontrano per dar vita al miracolo della musica, anche ed ancor prima presenza affettivamente vicina, amico per i più anziani, padre benevolo per i più giovani. Soffermarsi dunque a riflettere sulla stupefacente profondità delle sue pagine era un’urgenza artistica e morale a cui René Martin non ha voluto sottrarsi. E lo ha fatto chiamando a sé i temperamenti differenti, ed egualmente preziosi, di Momo Kodama e Bertrand Chamayou, affidando loro un compito che sapeva di sfida, di pericolosa immersione e di sfiancante quanto indimenticabile traversata tanto per l’esecutore che per l’ascoltatore. In meno di ventiquattr’ore, prima una selezione dai sette Livres del Catalogue d’Oiseaux e, a seguire, l’integrale (oltre due ore di musica densissima, quasi insostenibile per bellezza e pregnanza) dei Vingt Regards sur l’Enfant Jésus, monumento tra i più rappresentativi del compositore di Avignon, scritto negli anni bui del secondo conflitto mondiale, coevo del più frequentato Quatour pour la fin du temps. La prima opera è stata affidata alla sorgiva eleganza di Momo Kodama, da tempo votata ad un’indagine a tutto campo nel presente indicativo della musica. Il suo distillato di Catalogue, acutamente accompagnato, per ogni quadro, dalla lettura delle parole esplicative dell’autore – quasi una sceneggiatura ad un cortometraggio di altissima levatura poetica – era un autentico smarrirsi nel lussureggiante labirinto di una natura panica, totalizzante, tutta echi, sussulti, barbagli. A metà tra scientifico rigore ed immaginifica visione, lo scorso 1 agosto Kodama conduceva il pubblico dell’Auditorium Pagnol attraverso le regioni e i territori francesi in cui le tredici specie ornitologiche abitano, a scoprire l’inscindibile loro rapporto, tra concordia e conflitto, dominio e sottomissione, con paesaggio, fauna, uomo, Creato. Tessere di un mosaico infinitamente vario, continuamente cangiante, immensamente articolato, che il compositore aveva consegnato alle mani fedeli di Yvonne Loriod, straordinaria interprete e sua seconda moglie. L’esotismo sensuale del Loriot, capriccioso principe in una vegetazione che sembra contemplarne l’aristocratica figura, la secca, asciutta disperazione del Merle Bleu, il suo richiamo che sa di accorata invocazione verso un cielo che ne disperde invano l’eco. Il vanitoso volo del Traquet Strapazin, variopinta apparizione nella calura estiva tra vigne, rocce, falesie. E ancora, il lugubre, doloroso mistero del canto della Chouette Hulotte, il buio delle tinte di un paesaggio che ne ovatta il lamento e il sinistro presagio, e lo smalto gioioso del Traquet Rieur, tutto sciabole di accordi argentei, inondati di luce, in una leggerezza svagata e selvaggia. Fino all’Alouette Lulu, con la sua impalpabile presenza aleggiante e quasi segreta nell’aria dominata da bui rintocchi di campane, svelata solo dal sommesso dialogo con l’usignolo, mentre il bosco intorno mormora adagio. Inconsapevoli solisti, tutti, dell’immensa partitura del mondo, che il pianoforte di Kodama accoglieva ed esaltava facendosi magnifica cassa di risonanza di abbacinanti immagini sonore. Una sinestesia fatta di una gamma pressoché infinita di colori ed onomatopee catturata in un pianismo in ascolto del creato, mai esibito ma piuttosto proteso sulla cordiera a sondarne le possibilità, a chiederne inedite soluzioni. Un incanto raccolto e, se possibile, ulteriormente amplificato, il giorno successivo, da Bertrand Chamayou. Supremo dispensatore di una strumentalità sontuosa in cui la personalità del suono incontra un millesimale controllo delle dinamiche, il tutto servito sul piatto di uno smalto tecnico assoluto, il pianista di Tolosa ha prestato il suo approccio proverbialmente analitico e appassionato alla sublime meditazione che scava nel mistero del tempo e della sua entità, tra cielo e terra, tra istante ed eterno, appunto. Uno sguardo che dalla rutilante materia sonora – clusters, echi di gamelan giavanesi, cascate di accordi come grappoli di lava, estesi disegni arabescanti – sembrava inesorabilmente sublimarsi verso una dimensione rarefatta, sospesa, trascendente. Così, nelle brume accordali del Regard du Père, nella sua calma immobile che tutto pervade, nella sua voce arcana, prendeva avvio un racconto immenso che già nel successivo Regard de l’étoile si faceva più aspro e sincopato, polverizzato in un pulviscolo di frammenti pronti a lasciare spazio ad una melodia nuda: il canto del cielo per il Bambino che con la sua venuta riscriverà la mappa del mondo, e con essa le sue gerarchie. L’alfabeto di un simbolismo segreto, criptico, si faceva ancor più forte ne L’échange, che Chamayou accendeva con sciabolate luminose prima di inginocchiarsi di fronte alla pietas del Regard de la Vierge, con la cellula discendente, ripiegata, come motto di accettazione incondizionata. Un contrasto stridente, doloroso, tra l’ora e il sempre, che il Regard du Fils sur le Fils – uno e trino, con tre mondi sonori e ritmici sovrapposti – restituiva con accordi di quarte erranti, inquiete seppur sommesse e che l’abbacinante Pour lui tout a été fait trasformava in magma; la fucina di Dio da cui tutto prende forma e senso, in un’apoteosi sonora che è trionfo della luce sul caos. Di stazione in stazione, in questo percorso insieme penitenziale e catartico, esistenziale ed intellettuale, Chamayou si faceva umile viandante, ossequiosamente inchinato di fronte alla vertigine di tanta arte, e insieme prezioso traghettatore di un percorso di cui, per perizia ed incrollabile forza investigativa, possiede come pochi le chiavi. Si arrivava all’ampio Regard de l’ésprit de joie, chiave di volta dell’intero edificio, posto al centro – con la sua selvaggia, furibonda ebbrezza, espressa in una danza sghemba e ruvida, approdante al tripudio quasi tonale di accordi di accecante luminosità – di una parabola che da qui comincia a discendere il pendio, verso le sonorità percussive de La Parole toute-puissante, la Parola che trionfa su ogni possibile eresia, e ancora, verso lo struggente Le baiser de l’Enfant Jesus, con la sua ninna nanna increspata da perturbanti dissonanze. Fino al Regard du silence, al suo canto rappreso nella muta stupefazione della Natività, nel prisma sfaccettato dei suoi accordi alternati, coriandoli opalescenti di un mistero senza fine, rotti dai clusters lapidari, tremendi, del Regard de l’Onction Terrible, forse il più gestuale e materico dei venti tasselli, nella sua angosciante sentenza senza appello. Je dors mais mon coeur veille, recita il penultimo dei Regards, lancinante soliloquio intriso di devozione di un cuore semplice inondato di pienezza in cui, a suggerire i sussulti dell’anima, le sue intermittenti esitazioni, era un ipnotico gioco di pedale, l’indizio di un’umanità sempre fragile e trepidante. Il crescendo accecante dell’ultima tessera di questo viaggio esperienziale, il Regard de l’Eglise d’amour giungeva, con le sue campane liberate a festa, il suo gioioso tumulto, a vincere le tenebre della notte, le incertezze del cuore, nel trionfo di un abbraccio sonoro immenso. Due ore senza respiro, in un silenzio quasi surreale di un Auditorium completamente catturato da un ascolto che sapeva di miracolo.

Elide Bergamaschi