Per i Camaleonti gli “applausi” non finiscono mai

I Camaleonti alla
I Camaleonti alla "Notte delle Stelle" di Cerese

BORGO VIRGILIO Prima della loro esibizione alla “Notte delle Stelle” di Cerese, abbiamo avuto il piacere d’intervistare i Camaleonti. Non parliamo di un gruppo qualsiasi, ma di una straordinaria storia musicale lunga cinquantasei anni. Che esplode nel ’64, quando incidono “Portami tante rose” e “Sha La La La La”, ed è subito un boom di vendite con oltre 400.000 copie ognuno. Da quel momento inizia la scalata verso il grande successo e la vetta delle classifiche raggiunta nel ’68 con “L’ora dell’amore” (versione italiana di “Homburg” dei Procol Harum), brano che diventa un inno dei giovani di allora, capace di vendere 1.600.000 copie. Seguiranno altri testi di successo come “Applausi”, “Io per lei”, “Mamma mia”, “Viso d’angelo” e “Eternità”. A rispondere alla nostre domante c’è Livio Macchia, che parla a nome del gruppo, composto anche da Tonino Cripezzi, Valerio Veronese, Massimo Brunetti e Massimo Di Rocco.
Come vi siete incontrati?
«Con il batterista storico Paolo de Ceglie, che purtroppo ci ha lasciati, andavamo a scuola insieme, abbiamo incontrato Tonino in un locale, con gli altri abbiamo scoperto di avere in comune la grande passione per la musica, negli anni sono cambiati alcuni componenti fino ad arrivare alla formazione attuale. Inizialmente ci riunivamo in qualche cantina per le prove, poi sono cominciate le serate in giro, dei piccoli concerti e così ha avuto inizio una storia ricca di soddisfazioni».
Come avete scelto il nome del gruppo?
«Abbiamo preso spunto da uno sceneggiato tv che si chiamava “I grandi camaleonti”. Ci piaceva il nome, inoltre ci identificavamo molto nel camaleonte che ha la capacità di cambiare il colore della pelle in base al luogo in cui si trova perché facevamo diversi generi musicali, variavamo anche in base all’ambiente in cui ci esibivamo».
Tanti gli attestati di stima e premi ricevuti, ma ci sono state anche delle delusioni?
«Abbiamo vinto per quattro volte il “Disco d’oro” vendendo per ogni pezzo oltre un milione di copie, partecipato a diverse edizioni del Cantagiro e a tutte le manifestazioni più importanti, tra cui il Festival di Sanremo, e, credo, emozionato generazioni di italiani: diciamo che un “premio alla carriera” ci avrebbe fatto piacere».
A proposito di Sanremo, cinque le vostre partecipazioni, la prima nel 1970.
«Eravamo in coppia con Ornella Vanoni con la canzone “Eternità”. A quei tempi prendevamo tutto come un gioco perché non bisogna mai smettere di divertirsi. E d’altronde un po’ d’incoscienza non guastava».
Dopo il terzo posto nel 1979 con “Quell’attimo in più”, tornate l’ultima volta nel 1993 cantando insieme ai Dik Dik e Maurizio Vandelli la splendida “Come passa il tempo”. Il brano fu incredibilmente escluso dalla finale, sebbene riscosse un grande successo (gli stessi Ruggeri, vincitore quell’anno del Festival, e Zero ne tessero le lodi). Come ve lo spiegate a distanza di anni?
«Non ce lo spieghiamo ancora, anche se scrissero di tutto, bollando frettolosamente il testo come “operazione-nostalgia”. In realtà era un manifesto generazionale, che riesce sempre ad emozionare chi lo ascolta. Che è quello che per noi conta».

MATTEO VINCENZI