MANTOVA Se chi di dovere fosse intervenuto per tempo e in modo adeguato almeno una parte del centinaio di casi da Citrobacter si sarebbero potuti evitare. Questa la conclusione in via principale a cui è giunto, dopo un estenuante anno di rinvii, il pool di quattro superperiti incaricati dalla procura di Verona e composto da professori di medicina legale, neonatologia, microbiologia e analisi cliniche. Il gruppo di esperti era infatti chiamato a far luce sul batterio killer che tra il 2018 e il 2020, all’ospedale della Donna e del Bambino di Borgo Trento, aveva ucciso quattro neonati (Leonardo a fine 2018, Nina a novembre 2019, Tommaso a marzo 2020 e la mantovana Alice il 16 agosto 2020 a soli 5 mesi d’età), causando danni permanenti ad altri nove nonché colpendo in tutto un centinaio di bambini nati prematuri. Vicenda per la quale erano finiti nel registro degli indagati in sette, tra medici e manager dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona, circa le ipotesi di omicidio colposo plurimo e lesioni colpose gravi e gravissime in ambito sanitario. Affidata nel dicembre del 2021, a gennaio di quest’anno aveva quindi preso il via la redazione del maxi incombente peritale: a operare per la magistratura inquirente il professor Ernesto D’Aloja, medico legale dell’azienda ospedaliera universitaria di Cagliari; il professor Daniele Farina, neonatologo dell’ospedale Sant’Anna di Torino; il dottor Ferdinando Coghe, specializzato in analisi chimicocliniche e microbiologia sempre dell’azienda ospedaliera di Cagliari; il dottor Clemente Ponzetti direttore sanitario del Policlinico di Monza. Nei giorni scorsi, dopo un’attesa lunga dodici mesi, è stato dunque depositato il corposo elaborato di circa 380 pagine da cui emerge che, ad assumere rilevanza penalistica in previsione di un eventuale processo, risultano i contagi da Citrobacter «annidatosi in un rubinetto dell’acqua utilizzata dal personale della Terapia intensiva neonatale e anche nei biberon», registrati al punto nascite scaligero dall’aprile del 2020 in poi. In quel lasso temporale, infatti, secondo i super esperti del pubblico ministero titolare dell’inchiesta, Maria Diletta Schiaffino, l’esistenza di un cluster epidemico sarebbe stata ormai comprovata dall’elevato numero di casi già registrati dal 2018: ciò nonostante, non sarebbero state adottate le adeguate contromisure. Per i consulenti, se invece l’ospedale fosse opportunamente intervenuto, i contagi contratti da quel momento in avanti si sarebbero potuti evitare: come per l’appunto la morte di Alice o le gravi infezioni che avevano colpito e menomato Benedetta, Maria e Davide. Ma anche i numerosi casi registrati prima dell’aprile 2020 sarebbero classificabili come «morti e colonizzazioni dovute a infezioni nosocomiali»: una conclusione, questa, importante soprattutto a fini civilistici in materia di risarcimenti. Uno dei passaggi-chiave della mega consulenza riguarda altresì le omesse segnalazioni da parte dei responsabili di reparti e laboratori circa «le condotte astrattamente esigibili rappresentate dalle immediate segnalazioni da parte dei responsabili dei reparti intensivistici e del laboratorio di microbiologia degli isolamenti, e dal mantenimento da parte di Cio (Comitato infezioni ospedaliere), Gio (Gruppo infezioni ospedaliere) e commissione multidisciplinare interna di una regolare cadenza almeno una volta al mese, se non più frequente in caso di modificazioni del quadro intro ospedaliero».