MANTOVA Das Schicksalslied, una sorta di canto del destino. Brahms non avrebbe dubbi. Una bambina dal talento multiforme, l’incontro con una pagina che lascia in lei un segno indelebile, l’idea a lungo rincorsa di appropriarsi di quelle note, e di quel mondo. Lei è Maria Gabriella Mariani, pianista, compositrice, scrittrice. Il canto è quello che sgorga dagli Studi Sinfonici op.13 di Robert Schumann. Oggi quel desiderio è cristallizzato in un’esecuzione che Classic Voice ha recentemente pubblicato, in allegato al numero dello scorso gennaio. Noi abbiamo incontrato l’interprete, a cui abbiamo chiesto di accompagnarci nella sua personale visione dell’opera.
Il Suo ultimo lavoro discografico La vede affrontare una delle opere più emblematiche della letteratura romantica: gli Studi Sinfonici op.13 di Robert Schumann, in un’esecuzione del 2001. La figura di Robert Schumann torna, dunque, ancora una volta, ad incrociare il Suo percorso artistico.
Ha proprio ragione: amo la musica (e la letteratura) romantica tedesca, e in particolare l’opera di Schumann; da quando a cinque anni suonavo il “Cavalier Selvaggio” o “Il contadino allegro”, Schumann mi ha accompagnato nei momenti più significativi della mia vita: dalla scelta della tesi (“Schumann: pensiero e fantasia”), ai programmi per i Concorsi e i Concerti, fino ai miei progetti discografici: da quello delle “Fairy Tales” fino a quest’ultimo, l’op. 13, allegata alla rivista “Classic Voice” dello scorso Gennaio. Non a caso, quando si è trattato di dare un’intestazione a quest’ultimo percorso schumanniano (CD, note tecnico-stilistiche dell’Opera 13 e un excursus in senso umano ed esistenziale sul mio approccio agli “Studi Sinfonici” all’interno della rivista), ho deciso di rifarmi al titolo della mia tesi di laurea. Che dire, ormai Schumann è per me più di un’affinità elettiva: è parte integrante delle mie idee, della mia musica, anche di quella che compongo, e soprattutto dei miei ricordi.
Da questa intensa interpretazione, sono trascorsi oltre vent’anni. Cos’è rimasto, oggi, di quella lettura? Quali scelte manterrebbe intatte e quali invece sentirebbe il bisogno di rivedere, anche alla luce del percorso di maturazione e di trasformazione che inevitabilmente comporta la riflessione sulla musica?
Questa domanda me la sono posta anch’io e per rispondermi mi sono data subito una… soluzione: ristudiamoli! Non risuoniamoli, ma ristudiamoli. In questo viaggio meraviglioso nella musica e nel tempo non sono stata solo a confronto con il mio Schumann, ma anche con me stessa. Dopo un’attenta riflessione ho deciso che li suonerò nel prossimo concerto che terrò alla Villa Pignatelli di Napoli. In questa seconda esperienza, fatta di ricerca e di emozione, sono partita dalla valorizzazione dell’aspetto sinfonico, che permea tutta l’opera, fin dal titolo. Privilegiare la coralità delle voci significa implicitamente anteporre alla voce dell’anima, intendo alla melodia, la struttura orchestrale, ossia la polifonia. Andando per cerchi concentrici, questo significa anteporre una visione d’insieme, formale o, se vuole, estetica, alle impennate individuali, che spesso traspaiono nelle esecuzioni solistiche. In altre parole, cerco di dirigermi, oggi, mentre vent’anni fa cercavo me stessa nella tempesta e nella passione delle singole frasi melodiche. Sarà l’età… non che manchi l’espressione, ma direi che si è trasformata in un’intima commozione.
Da sempre, l’op.13, insieme ad altre pagine schumanniane come la Toccata op.7 così come per altri esiti paradigmatici della produzione romantica, dalle due raccolte di Studi chopiniani agli Studi Trascendentali lisztiani, solo per citare i più universalmente noti, presenta per l’interprete il sottile crinale dal quale definire la dimensione puramente tecnico-strumentale – peraltro qui esplicitamente dichiarata – nell’imprescindibile rapporto con la sua stessa sublimazione poetica. L’allusione al “sinfonismo”, d’altronde, non lascia margini di dubbio rispetto all’anelito con cui Schumann guarda alle risorse del pianoforte attraverso un’ottica dichiaratamente trasfigurante. Personalmente, come ha risolto questa duplicità che, degli Studi Sinfonici, rappresenta la cifra distintiva?
Questo secondo me è proprio il significato più profondo della parola “studio”: studio come ricerca, equilibrio, come sublimazione del tecnicismo in musica. Sa, riaccostandomi a questi Studi, pensavo a quanto costituiscano la sintesi più compiuta del binomio tecnica- musica, sorta di ossimoro con cui si sono cimentati Liszt, Chopin e tanti altri. Gli Studi di Liszt completano il virtuosismo con la valenza tipicamente narrativa che fa da contraltare alla mera difficoltà tecnica; non a caso hanno un titolo che introduce una sorta di ambientazione, se vuole di racconto. L’op. 10 e 25 di Chopin sono il trionfo della poesia, dell’elegia in musica, attraverso uno scavo intimistico che vede l’io sempre presente, il pianismo imperante. L’opera di Schumann è epica: gli studi non hanno titolo, il titolo è il Tema stesso che li trasforma in variazioni, sorta di camicia di forza e al tempo stesso di scelta estetica che da Schumann arriva a Brahms e che antepone per non dire oppone a un pianismo funambolesco il più autentico dei virtuosismi. Dunque il compito dell’interprete a mio avviso è molteplice, perché deve aver assimilato così bene la mera difficoltà pianistica da trasformarla, direi quasi esorcizzarla, in un ambito squisitamente di insieme. Si spegne il virtuosismo di maniera e la musica si illumina di un altro tipo di virtuosismo, molto più interessante: il virtuosismo contrappuntistico, polifonico, appunto, sinfonico.
Come peraltro è ormai prassi abbastanza comune, sia nelle esecuzioni dal vivo sia nelle incisioni discografiche, la Sua scelta è stata di includere, nel corpus degli Studi, anche le cinque variazioni postume, collocandole, comme il faut, tra il nono e il decimo. Una sorta di soliloquio intriso di immaginifica bellezza, prima di rituffarsi nello slancio che condurrà l’ascoltatore fino alla trionfale conclusione. Cosa rappresenta, per Lei, questa estatica parentesi, nell’economia delle dodici tessere degli Studi? Quali interconnessioni ne coglie?
Ho sempre inteso le cinque variazioni come una nicchia, una sorta di rifugio in cui dismettere i panni del musicista interprete e indossare quelli di colui che canta, costruisce atmosfere, sogna, vive una parte di sé in quei ritratti così pittoreschi. La musica non ha sesso: l’armonia riesce a permeare ed equilibrare le connotazioni più estreme. Con questa inclusione ritengo che quest’opera si completi e acquisti quella tenerezza che se opportunamente dosata non rischia di sfociare nel femmineo; direi piuttosto che si fa umana.
Nella Sua costellazione personale, quali sono le esecuzioni che hanno rappresentato riferimenti a cui ispirarsi per costruire la Sua lettura interpretativa dell’op.13?
La prima che sentii credo che fosse di Tacchino, poi l’ho sentita suonata da Weissenberg. Poi la scelta delle incisioni ha risentito anche della mia crescita personale: da ragazza per esempio avrei tanto desiderato sentirli dalla Argerich, che per l’epoca era il mio ideale, ma non credo che li abbia mai registrati. Oggi ho una registrazione di Pollini, avrei tanto voluto sentirli suonati da Arturo Benedetti Michelangeli…
Un passo indietro. Rispetto alle numerose opere del catalogo schumanniano che fanno parte del Suo repertorio, quello con l’op.13 è un legame che ha radici antiche, legate a doppio filo con la sua biografia d’infanzia. Potremmo parlare, rispetto al primo “incontro” con gli Studi, di una folgorazione fatale, decisiva, cioè, nell’evoluzione del Suo destino?
È esatto: è proprio il caso di dire… quando la musica si fa vita. Nella memoria di me adolescente questi studi si intrecciano alla mia storia fatta di viaggi, di stazioni, di addii. Mi sovviene una piccola stanza, il giradischi col suo replay, mai stanchi di risentire questi Studi, e poi rivedo quella stessa stanza vuota, col solito giradischi, col suo replay mai tolto e gli studi che continuano a risuonare tra le pareti grigie. Non si tratta di un disco rotto, ma di un tempo rotto: rotto e dunque eterno.
Anche la Sua produzione di compositrice sembra rivelare, in filigrana, una dichiarata matrice schumanniana, filtrata anche alla luce di altri linguaggi quali, su tutti, quelli provenienti dalle suggestioni della Francia fin de siècle, con Ravel e Debussy.
Alcuni sostengono che Schumann sia il mio “parente più prossimo”; se è cosi io sono la sua parente più… povera. Ricordo che da ragazza scrissi una cadenza al terzo concerto di Beethoven e il mio maestro, forse giustamente, disse che era troppo schumanniana… Nel CD “Fairy Tales” ho abbinato alla mia “Kinderliana” (anche il titolo è emblematico) le “Scene di infanzia” di Schumann e i “Children’s Corner” di Debussy… Nel prossimo CD ci saranno i miei “Pezzi Sinfonici” (un omaggio alle mie radici e alle muse dei monti) e la “Kreisleriana”. Forse oggi non va di moda, ma io ho una concezione romantica della vita; cerco di costruirmi una serenità che possa il più possibile rinnovare, giorno dopo giorno, il mio amore per la vita. La musica mi aiuta tantissimo e quando sono presa dallo sconforto e dalla solitudine, anziché compiangermi o snocciolare i mali comuni in cambio di un qualunquistico mezzo gaudio, ricorro al mondo delle idee e degli ideali. In questo senso mi considero romantica e… schumanniana. Anch’io ho i miei… “fratelli di David” nel cassetto, da tirare fuori all’occorrenza.
Per un interprete, a Suo avviso, nella cristallizzazione dell’incisione è più quel che si guadagna o quel che si perde?
Penso che con l’esperienza l’interprete nelle sale da concerto dovrebbe fare in modo da avvicinarsi sempre di più all’equilibrio e alla sobrietà dell’incisione; così come in sala di incisione, dovrebbe privilegiare le esecuzioni di lungo respiro; magari non la prima, ma la seconda opzione, senza cristallizzarsi in un perfezionismo artificiale che i moderni mezzi di presa del suono sanno rendere, ma che l’orecchio attento sa percepire. Inoltre credo che non ne valga nemmeno tanto la pena: sento a volte delle esecuzioni da capogiro di pianisti che poi esibiscono registrazioni live non più lunghe di due minuti, possibilmente dei secondi tempi di sonata…
Lei è molto attiva anche dal vivo, con numerosi recital solistici. C’è spazio, nel Suo percorso, anche per il camerismo?
Magari! Ho studiato a Fiesole musica da camera, con il trio di Trieste. Purtroppo finora non è capitato: forse perché sono un po’ lontana… Ricordo che qualche anno fa studiai un’estate intera un programma cameristico. Poi non se ne fece più nulla. Indubbiamente ogni nuovo impegno è una responsabilità: quando si è in un gruppo la responsabilità è multipla. Spero che quest’estate andrà in porto un progetto in cui ci sarà l’opportunità di suonare anche in duo… indovini quale sarà l’autore?
Quali sono i Suoi impegni per il futuro prossimo? A quali pagine intende dedicarsi?
A Maggio ho un concerto a Milano, con mie musiche intervallate dalle “Estampes” di Debussy, recuperando molti degli autori del mio CD “Visions – Suites for Piano”, tra cui anche Prokofieff; poi sarò a Napoli con Schumann e il mio “Chef Tango”, che recentemente ho suonato in diretta a Rai3 “Piazza Verdi“; tra l’una e l’atra tappa, ci sarà la presentazione del mio ultimo libro alla Biblioteca Nazionale di Napoli: è una raccolta di dieci racconti dal titolo “L’egoismo dei deboli”. In estate forse farò delle puntate al nord, con la “Kreisleriana” e i miei “Pezzi sinfonici”. Mi preme tanto portare aventi il progetto “Nené”, dedicato alla piccola Antonietta, una mia antenata morta di tifo un secolo fa, poco prima di andare a studiare canto al conservatorio di Santa Cecilia; consta di una composizione pianistica, “Nené waltz” e un racconto pubblicato in un’antologia “Le rondini tornano sempre in primavera”. Vorrei anche finire di scrivere una composizione musicale che ho iniziato prima di Pasqua. Ma l’op. 13 di Schumann è totalizzante; detto tra noi, la Mariani pianista é per me più stimolante della Mariani che scrive… Lo studio, inteso in senso esistenziale, come ricerca, come lavoro e occasione di continue scoperte, mi affascina maggiormente se si tratta di indagare e interpretare il mondo dei grandi. In tal senso il mio rapporto con la tastiera e in generale con la musica non è solo un mezzo, ma anche un fine o, meglio, una scelta di vita.
Elide Bergamaschi