Ernani, un trionfo al Comunale di Piacenza

Foto gianpaolo parodi

PIACENZA L’opera della svolta, attinta nel calamaio visionario di Victor Hugo ed affidata al pennino di Francesco Maia Piave a cui Verdi si raccomanda senza complimenti: “brevità e fuoco”. Basterebbero queste due parole per tracciare attorno alla quinta creatura delle ventisette il giro di compasso. Ernani è la prima forte chiusura dei conti con un passato ancora occhieggiante – nei numeri chiusi, nel tratto sanguigno, in stilemi e formule di quello che è il mestiere di scrivere di primo Ottocento – ma al tempo stesso superato, non più decisivo; allo stesso modo, la traiettoria del suo sguardo disegna (e spalanca) orizzonti espressivi inediti, complessità ardite di un’efficacia drammaturgica sconosciuta fino ad allora. Qui, in una Spagna selvaggia e rurale che nell’atto finale trasferisce la vicenda ad Aquisgrana, covano i rovelli, i presagi, i sentori di una musica che si fa ricettacolo di straordinarie risonanze emotive: la lealtà, l’onore, l’ambizione. E l’amore, certo. Rigoletto, Boccanegra sono sagome solo abbozzate che il profondo alveo di questa partitura sembra già custodire in nuce. Di lì a poco, a giganteggiare sarà il profilo di Macbeth, una sorta di fratello maggiore dell’indomito Ernani nella sferzante scrittura. Con questa partitura ripida, sfuggente, difficile da incasellare, lo scorso 17 dicembre, con replica domenica 19, Piacenza ha centrato di nuovo l’obiettivo confermandosi, se mai ce ne fosse ancora bisogno, ben più di un buon teatro di provincia in cui l’Emilia più verace si ritrova per uno dei suoi irrinunciabili riti. La scia era già stata tracciata da Norma con cui, lo scorso novembre, si era aperta la Stagione Lirica. Lì a svettare era una colossale Angela Meade. Qui, in questo terzo titolo di una programmazione che nei prossimi mesi riserva ulteriori sorprese, protagonista incontrastato è stato Gregory Kunde, un Ernani dal fraseggio mirabile, dall’impasto brunito e dalla vocalità potente e straordinariamente duttile anche là dove solitamente le energie vacillano. Tra gli interpreti più acclamati della scena mondiale, il tenore americano, 67 anni, qui debuttava in forma scenica sfoggiando l’ardimentosa vitalità di un trentenne, capace di compensare uno strumento vocale oggi parzialmente usurato dall’intensa attività, soprattutto nei suoni gravi, con l’intelligenza di un’adesione trascinante, totalmente scavata nella parola. Con la generosità che gli è proverbiale, la scelta del finale alternativo del secondo atto, scritto da Verdi per il Nikolaj Ivanov spostava il baricentro per un attimo fuori dalla stringente economia drammaturgica cucita da Piave verso un one man show che in infiammava autenticamente il Municipale in un applauso infinito, quasi feroce. Sul palco, con lui, l’Elvira di Francesca Dotto si distingueva per accorata espressività oltre che per pregevole precisione. Un contraltare elegante ed inappuntabile in un’opera dai tratti marcatamente virili in cui tutto, sin dalla magnifica introduzione, è sussulto e profezia. Squilli di tromba e già siamo catapultati nel dramma, già Ernani affida la sua parola come pegno a chi ne reclamerà la vita. Spagna profonda, si diceva, boschi a rifugio di masnadieri e banditi, di indomite creature nate libere. In crescendo la prova di Ernesto Petti, scalpitante quanto poco preciso nei quadri iniziali e poi sempre più credibile ed efficace di atto in atto, fino a scolpire un acclamato “Oh, de’ verd’anni miei” con cui pareggiava egregiamente i conti. Ieratico e solenne il Silva, monolitico ma, appunto per questo, pienamente centrato di Evgeny Stavinsky. In buca, Alvise Casellati conduceva l’orchestra dell’Emilia Romagna Toscanini con braccio sicuro seppur complessivamente un po’ troppo spiccio, rinunciando a prendersi gli effettivi rischi di uno scavo che avrebbe esposto la tenuta d’insieme a diverse sovresposizioni. Come sempre buono, anche se lontano dalle vette di efficacia del cugino parmigiano, il Coro del municipale istruito da Corrado Casati. Un trionfo.
Elide Bergamaschi