MANTOVA Le voci della Natura, i mille echi del mondo. Per tutta la vita, Luciano Berio ha inseguito, in una sua personalissima navigazione, il canto delle cose, la poetica del frammento, da incastonare tra miriadi di altri reperti. Non per asettico amor di collezionismo, ma per insaziabile desiderio di comprendere, da quel dettaglio isolato, il contesto che lo aveva generato, la radice che ne aveva visto la nascita e, quindi, il suo valore di testimonianza di una verità più ampia. Con lui, a sostenerne ogni sforzo, l’immensa Cathy Berberian, indimenticata interprete ma anche compagna di vita, musa, consigliera, formidabile filtro critico alla sua arte. Con una serata di rara intensità, lo scorso 4 luglio, negli spazi prima esterni poi interni di Palazzo Te, Eterotopie ha voluto rendere omaggio, nel cartellone di Mantova Musica, ai cento anni dalla nascita (quelli della Berberian scoccati proprio la sera stessa) di due figure cardine del XX secolo, con un percorso d’ascolto reticolare, fatto di sinestesie e di audaci approdi che gli straordinari musicisti dell’Icarus Ensemble restituivano nella loro magmatica bellezza, attraverso una scrittura irta di sfide. A partire da Naturale, scritto per viola, percussioni e danza, cucito addosso alla voce registrata di Celano, l’ultimo cantastorie di una Sicilia arcaica e incontaminata, tra interni bui, segreti, e piazze chiassose, animate dal vociare delle abbagnate dei venditori ambulanti. Un affresco steso a grumi di suono materico, brullo, qui efficacemente contrappuntato dalle intense coreografie firmate da Chiara Olivieri interpretate da Adele Piscitelli, Federica Poma, Giovanna Fasanotto e Zagana Capilupi. Un racconto di donne dalla gestualità aspra e sussultante, come aspro e sussultante era il canto della viola di Yoko Morimyo, perfetto, insieme alle percussioni di un bravissimo Francesco Pedrazzini, per rendere plastico quel groviglio di corpi chiamati a raccontare di silenzi e attese, impellente erotismo e dolori dignitosamente custoditi attorno all’intimità di una tavola apparecchiata, cuore e palcoscenico della casa. Al di là di quei muri spessi, Berio, con il suo infallibile orecchio appoggiato sul ventre del mondo, catturava il pulsare della vita, l’incanto del suo caos libero e compiuto, la bellezza sanguinante delle sue disarmonie. Anche le conclusive campane a lutto, in lontananza, con le danzatrici velate a mimare la scena di una laica deposizione, dicevano non della morte che arriva, ma della vita che scorre, inarrestabile, oltre le cose, oltre noi. Dall’altro capo della serata, allestito nella Sala dei Cavalli, ad attendere il pubblico era lo straordinario arazzo delle Folk Songs, undici campionature attinte dall’anima popolare dei territori più disparati, dagli Stati Uniti all’Alvernia, dall’Azerbaigian alla Sardegna. Non un ciclo unitario, bensì una galleria di creature singole unite dal sottile, impercettibile rammendo che Berio opera dentro e attorno ad esse, costruendone il tessuto strumentale, ricreandone lo spirito, l’anima, lo spessore. Venti minuti di puro incanto in cui, sotto la direzione di Marco Pedrazzini, gli strumentisti dell’Icarus trovavano a dialogare la voce di Ljuba Bergamelli, accesa in ogni accento, in ogni sfumatura, dall’incandescente fiamma di un pathos capace di dare quinte e risonanza, fuoco e respiro, ad ogni sillaba. Seguendo il monito della grande Berberian, il giovane soprano imprimeva in ognuna delle undici creature un particolare colore emotivo. L’ampio sguardo contemplativo di Black is the colour, l’iridescente leggerezza di I wonder as I wander, con le liquide opalescenze di arpa e fiati, il dolore di pietra, sublimato in canto, dell’armeno Loosin yelav (come dimenticare le radici armene della Berberian?), lo sguardo, trafitto di sgomento e di silenzio, del sardo Motettu de tristura, fino al rutilante Love song azero, canto d’amore ruvido e scalpitante, cantato en plein air come in una festa sull’aia. Incastonato tra queste due pagine assolute, il cammeo dedicato da Corrado Rojac alla figura dell’ostigliese Giuseppe Greggiati, visionario autore, negli anni ’40 del XIX secolo, di un Metodo per armonica a mantice di oltre mille pagine. Uno scrigno di musiche scritte con finalità didattiche, tese, cioè, all’apprendimento dello strumento ma, ancor prima, una preziosa cartina tornasole della sensibilità musicale del tempo, tra echi rossiniani e il gusto di una cantabilità già debitrice a Bellini. Dal progetto, ben illustrato dal sacerdote-compositore nel Manuale rimasto nel cassetto fino alla sua scoperta, avvenuta solo pochi anni fa, Rojac ha ricavato il prototipo di strumento con cui, con l’acuta sensibilità che ne ha fatto uno degli interpreti più autorevoli della scena attuale, ha condotto l’uditorio attraverso il sorprendente patrimonio di questo gigante ancora da scoprire, esploratore e catalogatore, un secolo prima di Berio, delle voci e dei suoni di un’Italia ancora da fare, ma già intimamente affratellata nel segno di una comune sensibilità. Una serata di grazia, impreziosita, in sala, dalla presenza di Cristina Berio, figlia di Luciano e di Cathy Berberian.
Elide Bergamaschi