SANREMO Quel frate francescano, che rispondeva al nome di Fra Giuseppe Cionfoli, con la sua chitarra e la sua voce soave si esibì nel 1982 sul prestigioso palco del Teatro Ariston di Sanremo, entrando subito nel cuore degli italiani. Da “Solo grazie” sono passati quarantatrè anni, Giuseppe Cionfoli ha abbandonato l’ordine monastico ed è diventato marito, padre e nonno, ma continua a predicare Dio cantando, con la profondità dei suoi testi.
Cionfoli, ha seguito il Festival?
«Un po’ sì. O meglio: a tratti, perché l’impressione è che sia tutto standardizzato e di sentire sempre la stessa canzone, cosa che poi si riflette anche a livello radiofonico»
Che risposta si è dato?
«Lasciare il monopolio dei brani in gara a un gruppo ristretto di autori non la trovo la strada più corretta. Ma oggi va così, è un Festival ad inviti».
Dei cantanti in gara cosa ne pensa?
«Devo essere sincero, quindici di loro nemmeno sapevo chi fossero. Però premetto: la mia non vuole essere una polemica ma una considerazione oggettiva, nel senso che va bene dare spazio ai giovani, ma sarebbe opportuno un maggiore equilibrio per accontentare le varie fasce d’età di chi guarda il Festival. Il vessillo della mia (sorride, ndr) è stato comunque tenuto alto da Massimo Ranieri e Marcella Bella».
Anche quest’anno aveva presentato una canzone, peraltro su un tema tristemente attuale come quello della guerra. Perché è stata scartata?
«Si vede che non ho santi in paradiso (sorride, ma poi torna subito serio, ndr). Però almeno me l’hanno comunicato, ed è già un passo avanti rispetto agli scorsi anni, quando nemmeno ti rispondevano».
In questa edizione molti hanno apprezzato il ritorno di una certa sobrietà nel contesto generale, a partire dagli stessi testi e dai look dei cantanti.
«Un aspetto senz’altro positivo e incoraggiante, anche perché negli ultimi anni oltre al troppo livore in taluni testi si è scaduti nella volgarità, rasentando quasi la blasfemia».
Tre le sue partecipazioni al Festival. Partiamo da quella del 1982, quando con “Solo grazie” sfiorò il podio conquistando gli spettatori.
«Fu una vera sorpresa. Avevo appena fatto Domenica In con Pippo Baudo e il patron di allora, Gianni Ravera, chiamò il mio discografico dicendo che si era “liberato” un posto. Quando me lo comunicò stentai a crederci».
Come fu salire sul palco più importante d’Italia?
«Un’emozione incredibile, tanto che quando toccò a me ebbi un black-out. Non mi ricordavo più le parole e il direttore di palco mi spinse dentro, e come per magia la “luce” tornò».
Nel 1983 tornò con “Shalom”, piazzandosi all’11° posto. Più che per la posizione rimase amareggiato dalle parole di Nantas Salvalaggio (il giornalista celebre per l’acceso scontro dell’anno prima con Vasco Rossi, ndr).
«È così. Insinuò che ero un “finto” frate, cosa assolutamente non vera, facendo passare il messaggio che utilizzavo la mia vocazione per lanciare la mia carriera di cantante. Un’uscita infelice e gratuita che mi fece male».
In occasione del Festival del 1994 facesti parte del gruppo Squadra Italia, appositamente costituito per l’evento, cantando il brano “Una vecchia canzone italiana”. Lì nacque la sua amicizia con Nilla Pizzi, alla quale dedicò persino una canzone (“Nilla cara”).
«Una persona squisita e dall’umiltà sconfinata, lei che era la “regina” del Festival. Fu un’esperienza meravigliosa, culminata da una tournée in Canada che mi porto nel cuore. Ricordo i siparietti simpatici di Nilla con Carla Boni, che pure faceva parte di Squadra Italia».
Cosa fa oggi Giuseppe Cionfoli?
«Continuo a cantare, a portare i miei messaggi cristiani di speranza Al di là del fatto che non sia più in convento, è importante predicare che oltre a questa vita ce n’è un’altra e che la vita che abbiamo è un dono di Dio e dei nostri genitori. Non c’è cosa migliore di questa. Ho anche fatto musical (uno su Padre Pio, insieme al grande coreografo Franco Miseria). Negli ultimi tre anni mi hanno proposto di partecipare a The Voice Senior, ma ho gentilmente declinato l’invito».
L’anno prossimo presenterà un nuovo brano per Sanremo?
«Assolutamente sì, e speriamo, stavolta, nel miracolo».
Matteo Vincenzi