Maria Morganti, Paul Cox e Stefano Arienti alla Galleria Corraini

MANTOVA Tre artisti, tre storie, tre diversi modi di raccontare la realtà attraverso il colore. Che siano le pennellate dense e vigorose di Maria Morganti, la palette essenziale e poetica di Paul Cox o lo strumento scelto da Stefano Arienti per sofisticate operazioni di decostruzione dell’immagine, per ognuno di questi artisti il colore è un filtro attraverso cui raccontare se stessi e il mondo, è mezzo, è fine, è rigore, metodo e disciplina. La Galleria Corraini sceglie così di accostare tre artisti per pratica e poetica molto lontani tra di loro, ma uniti da una straordinaria capacità di utilizzare il colore come materia e traccia dell’esistenza.

In occasione della mostra, l’incontro con Stefano Arienti è un’occasione per far conoscere al pubblico il pensiero e la pratica che si celano dietro alle opere dell’artista. Il 27 aprile alle 18.00 alla Galleria Corraini, Arienti racconterà come l’esercizio e la pratica artistica possano prescindere dal processo concettuale e dalle intenzioni. E il disegno diventa altro, è puro fare, piacere e felicità. Così nascono anche le carte esposte per la mostra Del colore, e questa stessa idea dell’azione e della pratica pittorica saranno anche al centro dell’incontro che Stefano Arienti terrà questo autunno all’interno del progetto della Scuola di Palazzo Te – Fare Arte.

Il colore seduce, narra, gerarchizza, organizza, valorizza… È il “filtro con cui pensiamo la realtà”, “forma lo sguardo moderno”. Ma l’impiego di un determinato colore, in un determinato periodo, è sempre stato condizionato, e indotto, dalle contingenze politiche, economiche, sociali, dal volubile variare di mode, costumi ed estetiche. Non esiste un’unica storia del colore, ma più storie. Che procedono di pari passo con le differenti tecniche – dalle tempere agli oli agli acquerelli – e con le evoluzioni di processi e tecnologie, dall’impiego di pigmenti e colori naturali, preparazioni dal sapore quasi magico-alchemico, all’invenzione di quelli industriali, dalle innovazioni nei processi di stampa fino all’avvento del digitale e della mediazione degli schermi di computer, smartphone e device vari, a loro volta, agenti modificanti/alteranti la visione del colore stesso. Morganti stratifica […] Individua il momento del tocco del pennello sulla tela e quello, successivo, della “concettualizzazione”, della “assimilazione”, della “presa di distanza” da quella tela, da quel pennello. […] Cox impiega una tecnica “che assomiglia a quella degli album da colorare”. Si ha sempre la sensazione di una composizione in fieri, di dover “integrare” qualcosa. Arienti, dove può, aggiunge, con leggerezza, per quanto nelle sue opere abbia pure fatto ricorso alla cancellazione fino alla trasfigurazione dei soggetti affrontati. Urge ora un’ultima domanda: la scelta di uno specifico colore può assumere una valenza politica/rivoluzionaria o si risolve in mere speculazioni autoreferenziali, tautologiche e/o estetiche? A questo proposito trovo molto calzante un frammento di conversazione avuta con Luca Bertolo – che amo spesso citare – in cui il pittore si sofferma sul fatto che, nella creazione, “ampliare l’orizzonte d’attesa non significa necessariamente vomitare in una galleria o impiccare fantocci a un albero; meno eclatante, ma non meno intenso, può risultare un carminio in luogo di un cobalto”. Ed ecco, allora, che la scelta di un colore può fare la vera differenza”. Damiano Gullì