Trame Sonore, la mimesi perfetta di una città che è il Festival e di un Festival divenuto città

MANTOVA Via, di corsa. Scarpe basse e gambe buone. Ore dense ma fugaci, da prendere a morsi prima che evaporino. Assaggi di una bellezza che, anziché bastare, alimenta l’appetito. Sei lì e, sfumato l’applauso finale, già ti catapulti là, pedina impazzita tra le migliaia che formicolano per le vie del centro storico. E così, da un palazzo all’altro, altre voci altre stanze, tutti immersi nell’incanto di una città che si stringe attorno ad un evento diffuso, immersivo, insieme seduttivo e sottilmente perfido che, mentre nutre l’incanto, risveglia il desiderio, la mancanza, la consapevolezza che, a pochi passi, altro sta accadendo. Questo è Trame Sonore, la mimesi perfetta di una città che è il Festival, e di un Festival divenuto città. A Mantova, questo miracolo dilatatosi nel tempo sino a diventare paradigma del futuro della musica ha il desiderio a soffiare nelle sue vele. Desiderare è godere del presente e insieme avvertire l’allungarsi delle ombre del ricordo su istanti che già profumano di passato; vivere l’istante ma anche soffrire per le occasioni mancate, per i frutti non colti. E, anche e proprio per questo, è guardare avanti, alla prossima edizione, al prossimo ascolto. Tutto questo accade nella città dei Gonzaga, da undici anni, a cavallo del ponte della Festa della Repubblica. Gli spazi di un centro storico disegnato dai sommi geni dell’umanesimo italiano accolgono il brulicare di chissà quante presenze, inguaribili pellegrini della musica tra turisti, musicisti, giornalisti, tutti richiamati all’irresistibile promessa di un altro rito collettivo. Un rave party lungo quattro giorni, dall’alba alla notte. I tanti fili narrativi che tengono insieme, tra coerenza e piacevole divagazione, i sentieri incrociati delle trame, diventano ogni volta il tracciato di una girandola sfiancante e avvincente, singolare e plurale. Incontrarsi, separarsi, ritrovarsi. Ci consola sapere che mentre noi, a sipario appena chiuso, facciamo i conti con il nostro bottino di ascolti, Carlo Fabiano e il suo esercito di irriducibili collaboratrici stia già pensando a dare forma al dodicesimo cartellone, le cui date – in un’organizzazione che, lo diciamo ogni volta, non smette di stupirci per chirurgica efficacia – andranno dal 29 maggio al 2 giugno 2024. Il countdown scandirà il tempo che ci separa dal prossimo Festival, ma sarà anche l’occasione per riavvolgere il nastro e mettere ordine nel magnifico caos di giornate così frenetiche da accavallarsi nella memoria in ascolti sovrapposti, esponenziali. A dare il la a questa edizione erano stati il Fauré delle ultime parole, quelle pronunciate nel labirinto polifonico del Quartetto op. 121 dai quattro dell’Hermès, nella Galleria degli Specchi e, poco dopo, il Mendelssohn del Concerto op. 64 per violino e orchestra, con Julio García Vico alla testa dell’OCM e la grazia diafana di Javier Comesaňa Barrera come solista, nell’eterno stupore di Piazza S. Barbara. Bastavano queste due gemme per lo start di una maratona che ormai parla al mondo, e porta dentro di sé qualcosa che del mondo somiglia ad un distillato del meglio: grandi nomi e giovani talenti che si affacciano alla ribalta, generazioni che si prendono per mano e iniziano a suonare, senza formalismi, come se si trattasse di un atto naturale come respirare. Così è, da sempre, per Alexander Lonquich; senza la sua onnivora capacità di entrare ed uscire dai repertori più disparati, mantenendone costanti la temperatura, la tensione, la forza introspettiva, probabilmente non ci sarebbe questo Festival. Il suo giro di compasso sul topos della Fantasia, esplorata come solo lui sa fare in un recital che teneva insieme, in un arco privo di flessioni, Carl Philipp Emanuel Bach, Liszt e Schὂnberg, era un sentiero disseminato di interrogativi, aspetti su cui tornare a riflettere e a ripensare queste pagine, anche alla luce di quelle segrete, intime corrispondenze che solo il pungolo di una lettura al laser può rivelare. Allo stesso modo, il dittico Milhaud – Stravinsky che il pianista tedesco inanellava con la complicità del clarinetto del figlio Tommaso e del violino di Suyeon Kang era un viaggio struggente, graffiante, affilato, alla ricerca delle affinità sottese tra due voci abitate dagli stessi insospettati riverberi. Qualche ora dopo, il suo pianoforte sinfonico avrebbe incontrato gli archi di Barnabás Kelemen e di Nicolas Altstaedt per affrescare la parete del secondo Trio op.87 di Brahms e, ancora, con l’aggiunta di Katalin Kokas, per disegnare un Quartetto op.47 di Schumann steso a pennellate di grondante (e forse eccessivamente ruvido) pathos. Attorno all’inesauribile pulsare di Lonquich e di un cerchio magico di interpreti che con lui sono diventati presenze imprescindibili di ogni edizione, il Festival ha ordito come ogni anno la sua tela di squisitezze. Appuntamenti evento accostati ad occasioni di vera e propria Hausmusik, come il grappolo di Lieder macedoni che la voce di Blagoj Nacoski, con la pregevole complicità di Luca Ciammarughi al pianoforte, ha delibato nella loro amara, scura tinta poetica, o come l’altrove di miniature schumanniane sfogliate, come pagine d’album, dal pianoforte a quattro mani di Gian Luca e Alessandro Maria Carnelli. E ancora, vertiginoso per densità e tenuta emotiva, ancor prima che squisitamente strumentale, era il lancinante Bartόk della Sonata in sol minore che Aldo Campagnari ha dispiegato con marmorea bellezza davanti al pubblico di Palazzo Te. Potremmo continuare per chissà quanto, con il ricordo che chiama ricordo. Il trio, nato quasi in medias res e già intimamente compenetrato nella convergenza della visione interpretativa, costituito da Silvia Chiesa e Maurizio Baglini, violoncello e pianoforte che non hanno bisogno di presentazioni, con la felice aggiunta del clarinetto duttile di Pablo Barragan, sottile compagno di viaggio per addentrarsi nel sottobosco dell’op. 114 di Brahms. Ancora l’Hermès – con Yan Levionnois nuovo violoncello della compagine – quasi furioso nello scompigliare le linee aspre del paesaggio sonoro di Ravel nel Quartetto in Fa Maggiore; la viola camaleontica di Sergey Malov, applaudito mattatore, alla Rotonda di S. Lorenzo, in un omaggio a Paganini. E, sempre alla Rotonda, la fiammeggiante Verklἅrte Nacht offerta, in notturna, dai Solisti della NDR Elbphilarmonie. Quattro giorni di adrenalina e batticuore. Ma quando arriva lei, il tempo si ferma, l’orologio si dimentica, e il Festival sale su una nuvola sospesa. Contro ogni previsione, Martha Argerich ha mantenuto le promesse ed è salita sul palco di un Bibiena che non ricordavamo potesse contenerci in così tanti. E con sé ha portato l’amica di una vita Dora Schwarzberg, degna comprimaria di memorabili pagine che hanno scandito oltre mezzo secolo di musica ai vertici. Il suo violino ha ripreso a suonare per l’occasione, dopo anni di drammatico silenzio in seguito di una brutta caduta. Chi si aspettava due leggende si è trovato di fronte ad una commovente lezione di umiltà, di spirito di servizio, di incrollabile dedizione data da due ottantenni che, mentre strabiliano, non smettono di commuoovere. Beffando i chirurghi che le avevano pronosticato il definitivo addio alle scene, la Schwarzberg ha di nuovo pescato, dalla sua cordiera, il canto della bellezza. Screziato dalla fatica, appannato da una fisicità compromessa, ma capace di stilettate di struggente verità, di pura commozione. E, incanto all’incanto, la scalpitante iridescenza del pianoforte di Argerich, una strumentalità sempre pronta a rompere gli argini, con l’eterna indomabile vitalità del suo smalto, si faceva intima, sottile corrente mercuriale alla trama all’intreccio, dardo lanciato ad un camerismo che qui, nella cornice di un Festival da vivere senza etichette né artifici, trovava la sua luce ideale per dire un presente offerto anche nel coraggio della sua imperfezione: il violino affaticato e parlante di Dora sembrava dire ad ogni frase: “oggi sono questa e offro quel che ho, tutto quel che sono, nell’irrinunciabile desiderio di una condivisione ad oltranza”. Confessioni impensabili in una sala da concerto, ma possibili qui, in un contesto di amici. Sul leggio, il crepitare visionario e inafferrabile di Schumann: quello dei Fantasiestücke op.72, dei 3 Kanonishe Etüden, insieme alla viola di Nora Romanoff, figlia della Schwarzberg ma, soprattutto, del Quintetto op. 44, con il violino di Lucy Hall e il violoncello di Giovanni Gnocchi pronti a salire a bordo di una così avventurosa imbarcazione e a scombussolare, con il loro torrenziale passaggio, lo svizzero ordine di incastri su cui si regge la geometria del Festival. Ci piace suggellare questa galleria di mirabilia con lo struggente Shostakovich dell’ottavo Quartetto che i moschettieri del Prometeo, da par loro, svelavano in una Galleria dei Fiumi stipata. Le ceneri di Dresda, il naufragio di un’umanità che lascia dietro di sé l’ultimo segno di ciò che è una creatura, di ogni strascico di pietà. La musica come carta carbone di ogni istinto distruttivo e di ogni anelito creativo, di un desiderio di bellezza, di verità, di compassione, che va oltre l’uomo, oltre la storia. Non ce ne vogliano le altre eccellenti formazioni transitate in questa folle corsa dalla città ducale, ma nessuno come questi ex ragazzi sa restituire in mezz’ora di musica, nella sua perfetta costellazione, un universo così compiuto. Per equilibrio, scavo, intelligenza di un dialogo che non promette certezze ma lavora sul dubbio, sul perché, sul sotteso e si fa ogni volta urgente interrogativo, provvisoria quanto lapidaria risposta. Un ascolto da cui era doloroso staccarsi, di quelli che penetrano più a fondo di altri e che rallentano il battito. Qualche ora dopo, Lonquich avrebbe accompagnato il sipario verso la chiusura, nel segno di Mozart. Ma, per noi, il viaggio finiva qui.

Elide Bergamaschi