Addio ad Antonio Paolucci: Mantova perde il suo ambasciatore soprintendente, ministro, conoscitore

MANTOVA È mancato ieri notte Antonio Paolucci, una delle personalità più importanti della cultura italiana nel secondo Novecento. Lui, riminese, classe 1939, il prossimo 29 settembre avrebbe compiuto 85 anni. Figura fulgida nel mondo dell’arte e dell’amministrazione, ancor più in un momento cupo e grigio come l’attuale. Paolucci fu grande amico di Mantova, città che teneva sempre nel cuore. La sua presenza a Mantova durò dal novembre 1984 all’ottobre 1986, e fu assai incisiva per l’operato, rivelando la capacità di dare veste moderna all’ufficio e di avere un’oculatezza ben superiore a molti suoi colleghi. Affabile e cordiale, ha lasciato dietro di sé un ricordo luminoso tra tutti i colleghi. Sì, perché Paolucci chiamava colleghi quanti lavoravano nell’ufficio, senza distinzione particolare di livello, importanza, ruolo. A Mantova era rimasto famoso quando, da soprintendente, alla domenica accompagnava i visitatori, dando man forte ai custodi, nelle sale del Palazzo Ducale, e talora difendendone dignità e impegno di fronte alle scortesie del pubblico. Ministro mezzo mantovano fu il titolo del giornale quando Paolucci fu nominato al dicastero voluto da Spadolini. Per me, allora giovanissimo aspirante storico dell’arte, fu emozionante vederlo in città e avvicinarlo in piazza Castello. In realtà, al di là di questo episodio del tutto marginale, la nostra amicizia fiorì negli anni successivi, anche grazie all’allora direttrice del Museo del Costume di Palazzo Pitti, Caterina Chiarelli, altra persona splendida e adamantina. L’onore di averlo ad alcune inaugurazioni non ha prezzo. Al vernissage dell’esposizione su De Nittis, Paolucci volle che lo accompagnassi con la mostra ancora chiusa. Ricordo ancora quello straordinario momento in cui di fronte a Passeggiata invernale, lo strepitoso dipinto che raffigura Léontine tra la neve, mi prese sottobraccio e, indicando con la destra lo sfondo del quadro, mi folgorò sulla grandezza del pittore dicendo: «guarda quelle macchie di colore. Lo vedi? È già Morlotti». Quanto Paolucci giganteggiasse sulla mediocrità imperante era evidente nel suo modo di porsi: garbato, elegante, spesso corredato di sigaro, educato e raffinato, mai incline alla volgarità (caprina, per citare altre figure che hanno a che fare con l’arte). Sempre disponibile, capace di relazionarsi con un onesto “tu” senza fare distinzioni classiste o di presunta importanza (per me, quanta fatica rivolgersi al “soprintendente ministro” con un “ciao Antonio”, ricambiato con la stessa cordialità e misura). Ricordo le visite fiorentine, e in particolare quella tenuta nel suo ufficio in via della Ninna, ultimo appuntamento del suo ultimo giorno da soprintendente. Un incontro piacevolissimo, gratificato da salami e parmigiano stravecchio, e da visita nelle sale degli Uffizi. Sono molti i mantovani che hanno avuto Paolucci come amico e che certamente lo piangono. Sono vicino al figlio, Fabrizio Paolucci, altra persona meravigliosa che ha ereditato dal padre l’amore per l’arte e l’impegno per la tutela. Amore per l’arte: sarebbe lungo (ma, potendo, opportuno) enumerare le sue battaglie e il suo impegno. Ma almeno l’essenza va indicata: per lui un capolavoro dell’arte era qualcosa di vivo, un dono da condividere e da tutelare, perché la memoria è il futuro. D’altra parte, in un Paese dove il successo è indicato in biglietti staccati e in soldi incassati, il suo pensiero era ben chiaro: “Il profitto di un museo è il servizio che rende alla collettività”. Credo sia opportuno che Mantova intitoli qualcosa a Paolucci: forse non una via periferica triste e grigia, ma qualcosa di diverso, magari la sala conferenze del Palazzo Ducale. A memoria di chi, davvero, guardava alla bellezza e alla sostanza, e non ai disvalori oggi così comuni.