MANTOVA – L’imponente caratura criminale, la sconfinata capacità economica, il ruolo dominante nel gestire gli affari della cosca e la suddivisione del territorio, nonchè il basso profilo tenuto per non destare l’attenzione di forze dell’ordine e magistratura. Questi, per sommi capi, gli elementi portanti circa l’impianto accusatorio del processo “Grimilde”, contro la ‘ndrangheta al nord, in corso a Reggio Emilia, e che vede come principali imputati Francesco Grande Aracri e i figli Paolo , Salvatore e Rosita. A confermarli è stato ieri mattina in aula il collaboratore di giustizia Angelo Salvatore Cortese, già testimone chiave dei giudizi contro le cosche emiliane, chiamato a deporre dalla Dda di Bologna in merito alle attività della consorteria a Brescello e più in generale nella Bassa, non solo reggiana. Cortese, 57 anni, è stato affiliato giovanissimo nel 1985, scalando “a colpi di omicidi” le gerarchie dell’organizzazione criminale calabrese fino al 2008, quando ha deciso di pentirsi in quanto “nauseato” da quel mondo che in gioventù lo aveva fatto sentire “onnipotente”. Al suo attivo, la partecipazione a otto delitti – di cui si è autoaccusato – compresi quelli nel reggiano del 1992 ai danni di Nicola Vasapollo e Giuseppe Ruggiero. Gli ultimi anni della propria “carriera”, dal 2005 al 2007, li ha trascorsi proprio a Reggio Emilia dove era venuto “non per mangiare prosciutto e parmigiano, ma per i soldi”, trovando poi il suo “eldorado”. Dapprima uomo di Antonio Dragone assassinato nel 2004, quindi “fratello” e “braccio destro” del nuovo capo Nicolino Grande Aracri, Cortese colloca i suoi rapporti col fratello del boss Francesco alla fine degli anni ’80 descrivendolo così: «Tirava i fili, era la mente che gestiva e organizzava tutto, ma lo faceva in penombra. A Brescello Francesco e i suoi figli comandavano come noi comandavamo a Cutro e in più riuscivano anche a investire. Perché il problema della ‘ndrangheta non è fare soldi, di quelli ne ha a palate, ma poi investirli in altre attività». E ancora: «Una volta Nicolino mi disse che poteva stare anche 20 anni in galera, perché tanto tutti i suoi soldi erano gestiti dal fratello». Una gestione ben organizzata, stando alle sue parole: «Nicolino aveva suddiviso il territorio in zone per garantirne un controllo capillare. A Francesco era toccato oltre che a Brescello anche Viadana, aree su cui comandava in maniera totale, e di cui disponeva a proprio piacimento ». A tal proposito, davanti ai giudici, l’imputato Francesco Grande Aracri si era difeso asserendo di aver tagliato i ponti con i propri familiari, ma per Cortese questo non è possibile: «Nella ‘ndrangheta non puoi ritirarti in buon ordine, si finisce ammazzati, arrestati, o si rimane dentro per tutta la vita». Il pentito ha spiegato poi un meccanismo tipico del clan: «Quando un personaggio di spicco è attenzionato dalle forze dell’ordine rimane in penombra e manda avanti le nuove leve». Che nel “distretto” di Brescello erano in particolare i figli di Francesco, Paolo e Salvatore Grande Aracri, quest’ultimo detto “il calamaro” per la sua indole tentacolare negli affari. Tra i business gestiti all’epoca, ad esempio, vi era la discoteca Italghisa di Reggio di cui Salvatore «era responsabile e supervisore, anche se ufficialmente non risultava». Ma le ramificazioni del clan andavano ben oltre, con propaggini anche nel Bresciano e nel Mantovano, come a Suzzara dove «i Grande Aracri erano entrati in affari controllando alcune imprese edili». Il collaboratore di giustizia ha quindi riportato in aula anche un altro episodio, relativo ad un tentativo di estorsione nei confronti di un esponente della famiglia Muto (con base a Gualtieri) che lui stesso voleva mettere in atto. «Avevo deciso che se non avesse pagato lo avrei gambizzato. Poi mi disse che lui versava già ai Grande Aracri: 5mila euro al mese alla “zia Maria” (soprannome di Giuseppina Mauro, moglie di Nicolino, ndr)». Quindi, conclude Cortese, «non feci più nulla: andava bene così». Prossima udienza il 21 febbraio.