Quando facevo il capo della redazione Lazio giocavo con i vari dialetti locali tentando di parlare da ciociaro o da abitante della Tuscia e naturalmente ero raramente credibile. Anzi mi diceva Maria Rita Grieco di Frosinone e Fausto Pace da Viterbo che ero “spettacolare”. Una maniera elegante per dire che facevo sorridere o ridere. Poi con qualche collega mi scappava qualche parola in dialetto mantovano, magari anche colorita, pensando e sperando che non venisse capita fino in fondo e invece, Sandro e Stefania in particolare, mi dicevano d’aver capito perché avevano avuto “frequentazioni mantovane” con relative pratiche linguistiche dialettali.
Eh, queste frequentazioni mantovane! Una specie di Erasmus per la diffusione della cultura linguistica virgiliana. “Ci sono parole in dialetto mantovano che valgono un mondo. Tipo: “ma càt!”. E’ raro che ragazzi giovani parlino dialetto o siano attratti dal dialetto. Francesco Piccinini fa eccezione e già un po’ di anni fa mi richiamava alla bellezza del dialetto. Mi diceva: “Ad esempio, Fabrizio, hai mai pensato alla parola “cat”. Cat. Tre lettere. E almeno quattro traduzioni. Cat uguale a: che altro? Cat: che ci posso fare? Cat: che possiamo dire? Cat: ovviamente!! Un’ammissione a denti stretti. Ma con una grande musicalità.
E poi c’è il massimo dei massimi “ma cat” : che è fraseologico, tipo così così. Ma cat. Un mondo vero e vissuto in tre lettere. Ad esempio, quel tuo collega della Gazzetta Mario Cattafesta che si firmava Ma Cat lo trovavo geniale. Ad avere una firma così”. A parlare non è un vecchio poetino del Fogoler, amante del vernacolo, ma un giovane mantovano di Suzzara, Francesco Piccinini, allora 27 anni, che armato di laurea in scienze diplomatiche e internazionali con magistrale in indirizzo in cooperazione allo sviluppo in quel 2009 stava per lasciare Ferrara per andare in Albania. Lui il dottor Piccinini aveva già fatto esperienze in giro per il mondo, tra cui l’amata Siberia, e poi sarebbe stato un anno a Scutari per un progetto di Ipsia Acli sul microcredito per i piccoli produttori, all’interno di un ventaglio che comprendeva l’analisi della migrazione Italia-Albania. Allora in uno degli ultimi giorni alla sede di Ferrara, e la settimana successiva si sarebbe trasferito a Roma per la formazione, da metà dicembre partiva via in Albania. Normale che due mantovani si mettano a tavola a Ferrara e dopo un piatto di passatelli non male, davanti ad una saporita salama da sug, pensando alla Russia passata e alla Albania che arrivava, ci fosse uno spazio per una ventata di nostalgia dialettale. Il contesto ferrarese isabelliano aiutava.
Che diventava stimolo di ricordi dei nonni dei bisnonni tra Villa Saviola e Torricella, in quelle fette pesanti di terra padana che stanno tra il Po e lo Zara, che nemmeno Guareschi affronterebbe a cuor leggero per la loro complessità antropologica e sociale. Tanto popolare quanto profonda. Dove anche una parola vale un mondo. E dove un termine può fare la differenza. “Già al liceo – diceva Francesco- ci divertivamo con i miei amici a fare una specie di vocabolario dialetto mantovano – italiano forbito dei termini più strani e caratteristici. Quelli che valgono una etichetta. Che diventavano dei soprannomi, cioè di “scurmai”. Dai Francesco spara. Beh possiamo vedere come si traducono Tacàda, Grèban, Tunàna, Pìafoc e Cat , Ma cat l’bbiamo già detto. Via. “ Tacàda: curiosa presa di posizione”. Eh ci stata tutta.
Quante volte ci siamo detti: ad garè mia d le tacade. Na bela tacàda. Insomma proprio una singolare presa di posizione. Grèban: di salute cagionevole. Ma nel grèban c’è tutta una definizione intrinseca di debole, cadente, oddio mamma sta per svenire, anche nell’onomatopea della parola che sembra degradare verso l’inconsistente. Tunàna: di scarsa intraprendenza. Ecco quello è un tùnàna, non c’è immagine migliore di chi ondeggia tra una necessità di fare a tutti i costi una cosa e la volontà che manca, una specie di momento basculante tra il vorrei ma non posso, potrei ma non voglio. Pìafoc: luce diafana. E se ci pensi luce diafana è qualcosa che ti lascia anche inerme, quasi distratto assonnato, invece se lo interpreti come pìafoc è una fonte di luce debole ma decisa nel contempo, limitata ma certamente esistente. Ve dam c’al pìafoc le.
Certo il dialetto mantovano ha un cuore con una capacità di sintesi pungente e struggente che la lingua italiana se lo sogna. E a una cena di saluto per una partenza per Scutari era obbligatorio che venissero fuori quelle frasi e quelle parole che hanno accompagnato la prima conoscenza del mondo intorno. Che adesso si allarga, che va anche all’Albania ma che ha le radici in quel “ma cat” che vale un discorso intero, nella sua incisiva essenzialità Vero Francesco’ “Ma cat”!!
Un ristorante che voglia distinguersi si prende un nome in dialetto in Salento come nel mantovano: già chiamarsi al Sucar brusc, per dire, può comportare una certa attrazione e portare clienti sempre più incuriositi. Se poi per soffitto ci sono frasi in dialetto e nomi in dialetto con relativa precisa traduzione il gioco è fatto. Ma pensate che bello sedersi al sucar brusch, e ricordare quando mia nonna guardando l’aria tersa ma fredda di gennaio sentenziava: incò l’è brusca, oggi è proprio brusca, fredda. Anche un vino lambrusco ha deciso di prendersi un nome dialettale e ovviamente tra suono, carattere e grafica sembra avere un gradimento a tutto tondo. Più che un nome una sentenza.
E poi parlare un po’ in dialetto ci fa sentire vicini alle radici anche se siamo a centinaia o migliaia di chilometri dalle stesse. Una raccolta di poesia dialettali del maestro saviolese Renato Bonaglia lo dimostrava già dal titolo: La fadìga da stà al mond. La fatica di stare al mondo. Ma una fatica meno faticosa se ti aiuta il soave ricordo di una frase della nonna quando facevo una marachella: “Ma ch’à t’à fàt”. Una musica per le orecchie e i ricordi. Che sono la nostra vita.
Fabrizio Binacchi