MANTOVA – Davanti ai giudici della Corte d’Assise si sono scaricati vicendevolmente la responsabilità del delitto perpetrato ai danni del connazionale 43enne, Rajiv Kumar, ucciso a colpi di spranga il 12 aprile scorso a Villa Saviola di Motteggiana. Scambio incrociato di accuse dunque ieri mattina in via Poma, tra i coniugi indiani Narinder Kaur, 32 anni, e Sarwjeet Singh, 45 anni, entrambi a processo per omicidio volontario aggravato. Un doppio esame degli imputati già avviato dieci giorni fa durante l’ultima seduta dibattimentale, nel corso della quale, a parlare in aula per primo, era stato chiamato il 45enne operaio agricolo ristretto dal momento dell’arresto nella casa circondariale di Mantova e per questo presente fisicamente all’istruttoria, a differenza della consorte associata al penitenziario milanese di Bollate e collegata in videoconferenza dal carcere di Opera. Nodo focale di entrambe le deposizioni quello relativo al momento dell’assassinio e al ruolo ricoperto in tale circostanza da ognuno dei due. Per quanto concerne Singh, difeso dall’avvocato Mara Rigoni, questi ha così riferito di aver tenuto solamente fermo la vittima mentre la moglie la colpiva ripetutamente con un tubo di metallo. Una ricostruzione dei fatti questa del tutto differente rispetto a quanto riferito invece dall’altra imputata, rappresentata a giudizio dall’avvocato Elena Raimondi. Stando infatti al racconto della 35enne, al nono mese di gravidanza, sarebbe stato il marito l’autore materiale del delitto. Lei, quella domenica mattina, lo avrebbe solo accompagnato a casa di Kumar per poi rimanere, seguendo le indicazioni impartitele in precedenza dal coniuge, nel piccolo corridoio dell’abitazione di via Filzi 62 in attesa che i due ex amici, rinchiusisi nel frattempo in un disimpegno adiacente risolvessero le proprie diatribe, non solo in relazione alla rapporto extraconiugale instaurato tra Kumar e Kaur ma altresì circa presunte foto private dei coniugi ed inviate a scopo ricattatorio dal 43enne ai parenti della coppia in India. Solo una volta visto Singh uscire dalla stanza coi vestiti completamente intrisi di sangue poi la donna avrebbe realizzato quanto effettivamente occorso in quello sgabuzzino. Da lì l’immediata richiesta del marito di consegnargli i leggins da lei indossati – al di sotto di un paio di pantaloni scuri – permettendogli così di cambiarsi i calzoni sporchi prima di far ritorno a casa. A confutare inoltre la tesi difensiva sostenuta dal legale dell’imputata, e connotante una cronica situazione di totale sottomissione sia fisica che psicologica in ambito familiare, anche la dichiarazione resa dal marito alla giuria popolare secondo la quale, fino a quel preciso istante, la moglie non avrebbe ne visto, ne avuto conoscenza della presenza dell’arma impropria utilizzata per uccidere Kumar e occultata da Singh sotto la giacca durante il breve tragitto che separava le due abitazioni. Un cambio di versione sostanziale quindi rispetto a quanto reso dai due al giudice per le indagini preliminari in sede di interrogatorio di convalida del fermo – nella fattispecie Kaur aveva riferito di aver partecipato al delitto solo nell’atto finale infierendo sulla vittima a terra e ormai esanime con un paio di colpi, mentre Singh aveva accennato ad un concorso attivo di entrambi nell’omicidio – che ha portato il pubblico ministero Silvia Bertuzzi prima della chiusura dibattimentale a chiedere la trascrizione in atti di dette pregresse deposizioni. Sentenza attesa alla prossima udienza.