Con La Bohème di Maria Luisa Bafunno prende il via la Stagione Lirica del Ponchielli

CREMONA Una scatola, un carillon e clic, la trappola dei ricordi ecco che scatta: la gelida soffitta – un po’ hangar, un po’ studio – che un affitto al ribasso ha costretto a rinunciare alle finestre e al colpo d’occhio sul cielo di Parigi, l’aria cruda dell’inverno, la giovinezza che stempera la povertà con complici pacche sulle spalle. Così, di fronte ad un Ponchielli stipato fino all’ultimo strapuntino, la scorsa domenica 6 ottobre, si srotolava la macchina della memoria di Bohème nell’idea registica di Maria Luisa Bafunno, e con il capolavoro pucciniano la Stagione Lirica prendeva avvio. Rodolfo vecchio che, a margine della scena, osserva sé stesso, ancora giovane scalpitante, nell’atto di vivere, amare, sbagliare. Il suo alter ego, ma anche la strampalata compagnia di sodali, ognuno dedito ad un ideale, ognuno corroso dal segreto di una passione che ne divora orizzonti ed energie. Da questa periferia dell’anima, Parigi è niente, solo un nome su un cartello stradale buono per farne un tavolo di improvvisata baldoria con leccornie raffazzonate chissà dove, chissà come; la realtà è fatta di bollette non pagate, aria che gela le ossa, talenti dissipati, come le pagine del romanzo che Rodolfo baratta per l’illusione di un istante di tepore. E così è la vita, nella testa di questi ventenni: un treno in corsa su cui saltare al volo, con magnifica incoscienza, con l’azzardo di chi si crede immune dal sortilegio del tempo e dalle ferite del cuore. Così la Musetta della giovanissima Do Yeon Kim, spigliata e puntuale ma solo nell’ultimo atto pienamente a fuoco nella complessità del personaggio, gioca all’amore, tenendone chissà quanti sul filo della sua cinica civetteria, così Mimì – una Maria Novella Malfatti intensa e fin troppo sicura di sé, nella vocalità drammatica del suo timbro robusto, cattura il Rodolfo ingenuo e delicato di un applaudito Vincenzo Spinelli con l’espediente di un lume spento. Si gioca, si finge, si fa sul serio, e nessuno – tranne il canuto Rodolfo spettatore di sé stesso (il bravo Domenico Nuovo) – che la vita è proprio questo: una recita vera e propria, scambiata per una prova generale. In buca, per questo primo titolo del bouquet stagionale del Circuito Lombardo, era la giovane bacchetta di Riccardo Bisatti, un giunco di purissima, chirurgica musicalità, di viva stringatezza, di preziosa intelligenza, a tingere questo Puccini di un pathos che sin da subito ne sottraeva la visione bozzettistica, da quadretto fin de siècle, a favore di un esaltante, a tratti crudo, realismo magico. Tutto in questa Bohème era frenesia che morde, audacia che graffia. Poca estasi, in un gesto che subito l’Orchestra dei Pomeriggi Musicali afferrava e traduceva al dettaglio. Ma, in compenso, ecco l’incanto della verità, il batticuore della vita. Quando Mimì bussava alla porta, ancora figura senza volto per l’aspirante scrittore, dalla buca affiorava, irresistibile, un alito di svaporata bellezza, l’annunciarsi inebriante di un profumo nuovo pronto ad invadere la stantia soffitta; ma quando, dopo le esitanti battute tra i due, nell’imbarazzo un po’ stucchevole presto fattosi desiderio, l’orchestra gettava addosso ai due amanti una coperta di greve, fatalistico pathos, il senso della fine già scritto nel cielo di un amore appena sbocciato. Come a dire che non è dramma ma tragedia, questa Bohème: una tragedia borghese, insieme grandiosa e meschina, consumata fuori dai libri di storia, nell’anonimato di un malsano bugigattolo affittato in nero nella Francia palazzinara di Napoleone III. Allo stesso modo, era quasi fisica la sensazione di freddo tagliente, sordo, nell’affanno incerto dei fiati ansimanti, salire dall’orchestra nell’avvio del terzo atto, quando alla Barrière d’Enfer si affacciano i figli di un dio minore: lavoratori giunti dalle periferie, pollivendole, gente che campa alla giornata, come sa, come può, gente che una rete metallica divide dal mondo dei giusti fatto di cabaret, giocattoli, insegne luminose. Qui il vecchio Rodolfo incontra la propria scalpitante controfigura e, per un attimo, si illude di poter correggere, al punto esatto, il nastro della vita, nel momento preciso in cui qualcosa s’è inceppato e lui si è allontanato dalla bella fioraia, gravemente malata, consapevole di non avere da offrirle che la stessa sua miseria. Non rimane allora che accarezzarne l’idea, l’illusione, stringendo a sé l’amata in un ballo dolcissimo, in un angolo della scena non battuto dalle luci dei riflettori. Il ballo tra un sogno e un’ombra mentre intanto, in questa suburra che non consente più alibi e divagazioni, ognuno fa i conti con ciò che è, e getta la maschera. Musetta, che da Momus era parsa calata a forza nei panni dell’avventuriera mangiauomini, finalmente trovava i giusti accenti con cui scaldare di pietosa solidarietà i suoi ultimi gesti verso Mimì morente. Così, in una produzione che aveva nei personaggi secondari le gemme più preziose, era per il nobile Colline di Gabriele Valsecchi, poetico e disincantato nel soliloquio “Vecchia zimarra”, per l’irrequieto Schaunard, delineato con cristallina perizia da Davide Peroni, e per il carismatico Marcello che, affidato al vellutato, duttile strumento di Junhyeok Park, riluceva in tutta la sua tempestosa ma anche solare passionalità. A completare il cast, interamente composto da giovanissimi, i bravi Benoit/Alcinodoro di Alfonso Michele Ciulla e il Parpignol di Ermes Nizzardo. Applausi vivissimi anche al Coro di OperaLombardia e al Coro di Voci Bianche del Sociale di Como, diretti da Massimo Fiocchi Malaspina.