Festival de Musique di Menton, l’incanto di Pierre Laurent Aimard

Pierre-Laurent Aimard©Catherine Filliol-Ville de Menton

MENTONE (Francia) Etico, prima ancora che estetico. Signorile, di un’aristocrazia trattenuta e quasi nascosta sotto un’allure mai impettita. Ed immensamente colto, nitido, onesto. Il pianismo di Pierre Laurent Aimard, in un tempo di roboanti ipertrofie dell’ego, rimane il miracolo di una lezione a voce piana, colloquiale, impartita, anzi, suggerita, non dalla cattedra ma dal banco eppure – nonostante questo o forse ancor più per questo – torreggiante. Il faro di una sapienza smarginata e costantemente vigile sul nostro tempo. Mancava dal palcoscenico del Festival de Musique di Menton da decenni, da quando il suo nome era, insieme a quello del patriarca Pierre Boulez, anima e motore dell’Ensemble Intrecontemporain. Un vuoto che il Direttore Artistico Paul Emmanuel Thomas ha colmato con la serata dello scorso 5 agosto. Davanti al numeroso pubblico che riempiva il Parvis della Basilica Saint Michel Archange, il pianista nato a Lione ha offerto la rara bellezza di un percorso d’ascolto cucito con filo di altissima sartoria, gravitante attorno all’idea di Fantasia. Archetipo compositivo ma anche inafferrabile anelito alla libertà, forma dai contorni strutturali sempre labili ma anche concetto letterario e mentale, propulsore di una creatività affascinata dalle strade sterrate, la fantasia era, nella visione di Aimard, l’espediente per un’esplorazione scoscesa e straordinariamente intensa alla ricerca dei nessi, per affinità o divergenza, tra voci poetiche, linguaggi, epoche storiche. Bastava, per dirla in altri termini, guardare l’impaginato del programma disposto da Aimard per rendersi conto della caratura dell’interprete. Ad aprire il viaggio, nessuna dichiarazione di intenti avrebbe potuto essere più perentoria dello Sweelinck della Fantasia cromatica Sw WV 258, con la sua polifonia verticale, innestata sul dettato tardorinascimentale eppure già altrove, scaturita dall’austerità solenne del motto e progressivamente avviata ai preziosismi di un tessuto armonico avventuroso, sibillino, pionieristico. Aimard ne percorreva i sentieri e la complessità di geometrie nette eppure ardite, ne assecondava il passo esaltandone le trascolorazioni che conducevano via via al mondo capriccioso ed erratico di Carl Philipp Emmanuel Bach. Il rigore nordico di quella voce di frontiera cedeva il posto alla civetteria mai banale di una strumentalità smaltata e sorprendentemente plastica, tutta scintille e confessioni di disarmante sincerità, spinte ben oltre quel tempo impettito di azzimi e galanteria: verso di noi. A noi, al nostro presente indicativo, Aimard consegnava attraverso quelle pagine, il seme delle nostre radici, di ciò che siamo. Ancor più esplicitamente profondo, profetico, perturbante era il Mozart della Fantasia in do minore K 475, disegnata nel suo profilo oscuro con pennino avvelenato dal tedio e dall’umor nero. Un viaggio che, a forza di peregrinare, sembrava qui giunto al regno delle ombre, quelle che avviluppano il Don Giovanni e gli ultimi Concerti per pianoforte, deciso a carpire i segreti di quell’ultimo mistero. La scintilla improvvisativa, da rilucente, si ripiegava qui verso i tormenti di un’anima amara e rabbiosa, scaldata, solo un istante, dall’affiorare di un canto dal sapore vagamente italiano. Annidata tra le grandi arcate del Concerto op.73 e le piccole (quanto straordinarie) Sonate dei numeri subito successivi, la beethoveniana Fantasia op. 77, con il suo incalzare ruvido e campestre, di un humor marcato e spiazzante, si insinuava nell’ordito già tracciato da Aimard, aggiungendo alla vocazione estemporanea del tratto l’elemento straniante, quasi caricaturale, del silenzio. Squarci nel cui vuoto la caustica materia sonora pareva rimbombare con i suoi interrogativi incalzanti, lasciati vibrare dall’interprete in tutta la loro perturbante urgenza. Il Fantasieren si faceva ben presto Wanderung e, con essa, la narrazione diventava sempre più il diario intimo – individuale ed universale – di un uomo e delle sue domande di fronte all’eternità possente della natura. Le sincopate miniature di fraseggi lavorati di finissimo cesello, di frasi levigate con lima di precisione, finivano per confluire nel più ampio profilo di un unico piano sequenza in cui ogni esitazione, ogni chiaroscuro, coincideva con gli occhi della voce narrante. Il Liszt delle Années de Pèlerinage, con l’incombente sagoma dei Ciprès à Villa d’Este, con lo zampillio quasi onomatopeico dei suoi Jeux d’Eau, tra pura elevazione dello spirito e lapidaria evidenza dell’umana finitezza, era un trattato sul Sublime. Nessuna concessione alle seduzioni flou di una rarefazione sonora tutta effetti e bozzettismi. Il pianoforte di Aimard era scandaglio per comprendere, lente d’ingrandimento per riflettere. A piedi nudi, a costo di inciampare in qualche sbavatura pur di inseguire la rotta di un cammino esistenziale, catartico, e non certo turistico. Nessun alone iperromantico. Non a caso, in un percorso a ritroso rispetto al disegno delle Années, la chiusura veniva affidata alla grandiosa Vallée d’Obermann, con le sue gole, i suoi precipizi, il suo teatro naturale di bellezza e di abisso: il luogo ideale per fare luce su ciò che siamo. Polvere nell’incanto eterno del tutto, e parte stessa di questo incanto. A suggellare un viaggio così intenso, la sublime proposta di un bouquet di frammenti firmati da Kurtag. Miniature nobilissime, dopo tanta solennità. Polvere di stelle.

Elide Bergamaschi