La fuga dall’ordinario di Krjstian Järvi

PARMA Krjstian Järvi è una ventata di energia contagiosa, sferzante, sorridente. La sua comunicativa non lascia scampo; e nei suoi concerti c’è spazio per tutto, anche per simpatiche gag con pubblico ed orchestrali che nulla tolgono al granitico approccio delle sue letture esecutive. A Parma, nella doppia data inaugurale che venerdì 29 e sabato 30 ottobre scorsi ha sancito il ritorno in sala a ranghi completi dopo mesi da dimenticare, nello scenario acusticamente perfettibile ma stregante per suggestione dell’Auditorium Paganini, l’avvio del cartellone della Stagione Concertistica della Toscanini è avvenuto nel segno del direttore estone, membro illustre di un’altrettanto prestigiosa dinastia di musicisti ed ora avviato al privilegiato legame di direttore ospite della Filarmonica. Lui avvezzo a guidare l’avventurosa ciurma della Baltic, con i suoi ragazzi strepitosi acciuffati attorno ad ogni angolo del grande Nord; loro, i professori d’orchestra emiliani, abituati a dialogare, oltre che con il Direttore stabile, con una rosa di differenti temperamenti. Ma di fronte alla vitale concretezza di Järvi, al suo incalzante richiamo al ritmo come scintilla della creazione narrativa e drammaturgica, la compagine appariva presa in contropiede, alonata da una palpabile soggezione, dal timore di uscire dalla comfort zone di una prudenza che Järvi continuamente sollecitava ad abbandonare. Una sensazione che si coglieva sin dalle prime battute dalla sua “Aurora”, pagina più d’atmosfera che di sostanza, nel suo trascolorare vivo, mercuriale, continuamente cangiante sotto i nostri occhi: l’iridescenza di un lago ghiacciato, il brivido che attraversa le sezioni e si fa luce pervasiva mentre sottopelle lavora, ossessivo, il nastro inesorabile di un incedere che non si arresta. Ciclico, eterno, come la natura. Il gesto parcellizzato, elettrico, chiedeva alla compagine di immergersi in quell’equilibrio dinamico, danzante, dal vitalismo sotteso ad ogni frammento. Ed aurorale, nordica, smagata dall’antico stereotipo di pagina di carattere, era la Suite dal Peer Gynt d Grieg. Ancora affiorava il mormorare della natura come sipario ai colori scuri, alle ombre lunghe, che attendono l’ascoltatore nel secondo pannello. Qui il Direttore chiedeva lo scavo, come a dire che questo è il tempo dei ripensamenti, dei non detti. Dei Warum. E gli archi, prontamente, rispondevano con un legato avvolgente, subito raccolto dal resto dell’orchestra in una resa elegante nel cui impasto facevano capolino, timidamente presenti l’ironia, la nostalgia, l’humor anche corrosivo di un affresco che è al tempo descrizione e caricatura, narrazione e grottesca distorsione. “I miei propositi in veste di nuovo Direttore ospite principale della Filarmonica Toscanini” aveva dichiarato lo stesso Jarvi in conferenza stampa, “si accompagnano ad una precisa finalità: vorrei invitare il pubblico a compiere una sorta di “fuga dall’ordinario”. Ed ancor più della prima parte del concerto – noi eravamo alla replica del sabato pomeriggio – la continuazione del viaggio nel grande Nord, con l’approdo al sanguinante affresco della Quarta Sinfonia di Tchaikovsky, scopriva definitivamente le carte su una concezione marcatamente positiva della musica quale universo in cui anche i conflitti più estremi trovano invariabilmente un terreno di conciliazione. Solo sfiorato, quindi, il naufragio esistenziale che a partire Dies Irae si abbatte sull’uomo; solo accarezzata l’insostenibile tenerezza della vita che scivola di mano mentre la notte si avvicina. Järvi chiede tutto, segue tutto: il rigore ritmico lapidario, e l’iridescente acquerello delle voci interne: lo svolazzo dei fiati, l’ingresso del clarinetto, mesto e solitario, a scandire un immaginario valzer grondante nostalgia, il pulsare sordo di un timpano lontano. Tra vapori leggeri ed il cielo che frana. Tutto fraseggiato, al limite della disgregazione, tutto positivo, in una visione che domina il fato e lo piega gioiosamente all’umana volontà. Una visione che, forse, si appropria con eccessiva baldanza della voce del poeta, ma che, con inappuntabile coerenza, con rigore ferreo e con magnifica sicurezza tecnica, ne riscrive la storia. Assicurandole un finale meno inconsolabile.
Elide Bergamaschi