CREMONA Cosa accade quando tutto finisce? Quando gli amici se ne vanno e la casa risprofonda nella cappa di silenzio e nostalgia? Riprendendo un’intuizione di vent’anni fa, per la regia di questo Don Giovanni andato in scena la scorsa domenica 23 ottobre al Teatro Ponchielli di Cremona ed ora in tournée nei teatri delle province lombarde, Mario Martone parte da una visione che sconfina nell’onirico. Don Giovanni è un’idea, un’assenza, nel blu leggero e struggente del sipario che ne cela le stanze, anch’esse immerse nella medesima, nobile decadenza. Al di là di quei velluti che fanno da sipario sta il micidiale marchingegno mozartiano di gioco mortale, roulette russa a colpi di conquiste, trovate, inganni serviti in punta di fioretto: un teatro elisabettiano popolato di comparse, persone e personaggi, uomini e fantocci, lì ad osservare il gran spettacolo del mondo in cui vita e scena, vero e finto, finiscono per assomigliarsi così tanto da non sapere più cosa è cosa. Guardano, da quegli spalti sfibrati, sbirciano, insinuano conclusioni indiscrete. Guardano a noi? O alla vicenda rocambolesca che si sta consumando? Sicuramente occhieggiano alla decomposizione di un mondo che gira vorticoso sul suo asse, eternamente condannato a ripetere sé stesso per non soccombere al peso della gravità. Addirittura penetrano la quarta parete ed irrompono in platea, mimetizzandosi tra il pubblico, in un’idea che è insieme accusa e assoluzione, impietosa denuncia e infinita pietà per le umane, universali debolezze. Sferzata dalla bacchetta di Riccardo Bisatti, ventidue anni di talento cristallino al servizio di una mente naturalmente volta allo scandaglio, ai risvolti impliciti, al filo rosso che scorre, inarrestabile, profetico, solenne sotto l’elettrica vivacità della macchina drammaturgica, la compagine dei Pomeriggi Musicali attraversava l’argento vivo della scrittura mozartiana catturandone appieno la duplice anima leggera e tragica e restituendone, con precisione quasi scientifica e ardito smeriglio, il miracoloso intreccio, l’ineffabile tinta . Con un’attenzione alla parola che ne sottolineava la complessità, il Don Giovanni di Guido Dazzini raccontava le prodezze non più delle ombre del seduttore seriale, tratteggiandone con millimetrica puntualità un convincente ritratto di libertino contemporaneo: asciutto, spavaldo, pervaso dal veleno di un’amarezza che solo un umanissimo, sincero pudore gli impediva di rendere troppo evidente. Il celebre “Là ci darem la mano”, insieme alla magnifica Zerlina di Gesua Gallifoco, era un saggio di misura, eleganza, e galante disillusione, solleticata dall’innocenza della giovane prossima alle nozze col suo amato. Una carezza mortale, delicata eppure capace di stritolare; n assalto alla diligenza condotto con armi esperte ma non ostentate. Quasi una coazione a ripetere, il bisogno di mettere a segno l’ennesimo colpo per non avvertire il baratro che cova, paziente, sotto ogni nostro passo. A contrappuntarlo stava il torreggiante Leporello di Adolfo Corrado, pasta vocale scultorea, luminosa, potente come colata lavica. La sua “Madamina, il Catalogo è questo” era puro spettacolo, con le ombre delle donne evocate pronte a materializzarsi, una alla volta, farfalle catturate e consegnate all’infinita galleria dei mirabilia dongiovanneschi. Alla stessa altitudine i profili speculari di donna Anna, una Elisa Verzier di gran temperamento, timbro drammatico e pregevole morbidezza, e di donna Elvira, autentica Erinni nel fuoco del suo amore tradito, cantato con l’appassionata furia di una vocalità di razza, nobilitata da una presenza scenica catalizzante. A completare il cast, insieme al Masetto perfettamente nel ruolo di Francesco Samuele Venuti, l’Ottavio fragile, tenue, introverso di Didier Pieri, sfaccettato con i tratti del miglior teatro tardobarocco. Più pallido ed evanescente il Commendatore di Pietro Toscano, alla cui ieratica presenza mancava la lapidarietà di qualche spigolo di troppo. Applausi meritatissimi. Chi può, segua e insegua le prossime date, a spasso per la Lombardia.
Elide Bergamaschi