Omicidio Mora: “Minacce di morte per far ritrattare mio figlio”

tribunale di mantova

MANTOVA  In un aula blindata, presidiata da decine di carabinieri sia in divisa che in borghese, é proseguito il processo instaurato a carico dei presunti responsabili dell’omicidio di Gabriele Mora, il gioielliere di Suzzara freddato con sei colpi di pistola nel suo negozio la sera del 19 dicembre 1996, in seguito ad un tentativo di rapina sfociato tragicamente nel sangue. Davanti ai giudici della Corte d’Assise presieduta da Beatrice Bergamasco sono sfilati dunque altri testimoni della pubblica accusa.
Presenti al dibattimento, in stato di libertà dopo la decisione della Cassazione che a luglio aveva rigettato la richiesta di misura cautelare avanzata a loro carico dalla procura, anche gli stessi cinque imputati. Si tratta di Adriano Dori, 45 anni, Danilo Dori, 55 anni, Giancarlo Dori, 53 anni, Stefano Dori, 48 anni e Gionata Floriani, 41 anni, tutti componenti della medesima famiglia di giostrai nomadi con domicilio fissato tra le province di Firenze, Torino, Vicenza, Padova e Gorizia. Ad aprire le escussioni di giornata quella del comandante del Nucleo Investigativo dei carabinieri di Mantova Claudio Zanon, già impegnato nella precedente seduta a ricostruire i legami familiari tra i vari imputati.
Tra i passaggi chiave di questo prosieguo di deposizione, dal carattere prettamente tecnico-scientifico, anche quello relativo ai riscontri balistici effettuati sui bossoli rinvenuti sulla scena del delitto e del tutto identici con quelli fatti recapitare in procura, a scopo minatorio, alla vigilia del dibattimento. Altro elemento addotto al giudizio dal sottotenente Zanon quello concernente il modus operandi impiegato in altre rapine fotocopia e consumate nella zona del Nord Est in quello stesso periodo. Conclusa la sua deposizione è toccato quindi ad Amalia Levakovic, madre di Patrick Dori, il super pentito che con le sue dichiarazioni aveva di fatto contribuito alla riapertura delle indagini a distanza di oltre due decenni. Incalzata dalle domande degli inquirenti la donna ha così confermato di aver ricevuto pressioni e minacce per convincere il figlio a ritirate le sue dichiarazioni, e di aver avuto paura per possibili ripercussioni in danno di entrambi. «In un paio di circostanze, tra gennaio e febbraio del 2017 a Pistoia – ha raccontato la donna 54enne attualmente detenuta in carcere a Firenze per altra vicenda – ho ricevuto la visita di Danilo e Adriano Dori i quali, mimando il gesto della pistola, mi hanno fatto capire che dovevo convincere Patrick a ritrattare altrimenti ci avrebbero ammazzati. Da lì ho presentato denuncia ai carabinieri». Dopo aver asserito di riconoscere in due dei 5 imputati presenti in aula gli autori di quelle frasi intimidatorie, la teste ha così ricordato di aver sentito parlare di Rudy Casagrande, il bandito rimasto ferito nello scontro a fuoco di 23 anni fa a Suzzara e poi abbandonato agonizzante dai sui stessi complici davanti all’ospedale di Thiene, solo dopo la sua morte. «In quel periodo, siamo alla fine del 1996, abitavamo tutti nel campo di via Diaz a Vicenza e mio marito dopo aver saputo che qualche giorno prima nel corso di una rapina c’era scappato il morto aveva insistito con Patrick, all’epoca solo adolescente, affinchè rinunciasse a prender parte ad altri colpi simili e già architettati in quanto, alla luce di quei fatti di sangue, troppo pericolosi per un ragazzino di soli 15-16 anni» Il processo proseguirà il prossimo 10 giugno.