Adriana Lecouvreur a Piacenza, manuale d’amore e vendetta senza tempo

PIACENZA I fiori del male. Adriana Lecouvreur, ben più che creatura verista – ahi, le etichette! – è un manuale d’amore e di vendetta senza tempo, snocciolati al femminile. Come amano, e come sanno odiare, le donne, sembra suggerire Francesco Cilea in questo spaccato di vita. È questa, infatti, un’indagine sulla complessità, sulla raffinatezza tremenda e chirurgica della vendetta, insieme rovente e glaciale, servita per amore, ma anche sui riverberi emotivi per un cuore conquistato e abbandonato. In queste settimane, il capolavoro del compositore calabrese – ben più, si diceva, di un frutto atipico tra Mascagni e Leoncavallo, sintesi felice, piuttosto, tra la quintessenza di un macerato tardo Ottocento e più visionarie ascendenze primonovecentesche, tra Debussy e Berg – sembra aver ritrovato nei cartelloni nazionali una centralità che lo riscatti dalla circoscritta nicchia in cui era stato relegato. In primis, in quello scaligero, con l’attesa produzione minacciata dal forfait di Anna Netrebko; a seguire, in quello itinerante, tutta emiliano, partito da Modena e conclusosi lo scorso 20 marzo al Municipale di Piacenza. La regia di Italo Nunziata sceglieva di incastonare la vicenda scandagliandone il lato più intimo ed introspettivo, facendo cioè di quel “teatro nel teatro” la perfetta metafora di una vita che è incessante prova, logorante attesa, altalena tra successi ed inciampi con la solitudine a far da contrappunto. Le scene di Emanuele Sinisi coglievano appieno lo spunto attraverso l’elegante bianco e nero che faceva da pedale per i vari quadri, squarciato tuttavia dal capriccioso telo rosso che irrompeva sullo sfondo, a dare una pennellata di vivida passione alla sobria misura della cornice. In buca, alla testa della Filarmonica Toscanini, la risposta di Aldo Sisillo ne seguiva altrettanto fedelmente gli intenti. Una lettura, la sua, che dopo un inizio in cui la frizzante concitazione della scena suonava ancor un po’ faticosa, con equilibri e ritmi da trovare, si faceva via via più partecipata, protesa sulla ricchezza insieme tersa ed opulenta della scrittura di Cilea, pronta a tradurne il vaporoso tappeto di trascolorazioni. In scena, Maria Teresa Leva dava voce ed anima ad un’Adriana a tutto tondo; la vocalità tornita, perfettamente plastica, scolpiva con magnifica aderenza un personaggio vivo e sfaccettato, egualmente autentico nella vita e nell’arte. Accanto, in un’appassionante gara di bravura, la contessa di Bouillon interpretata da Teresa Romano ben scansava le sabbie mobili del personaggio caricaturalmente acido ed assumeva le dimensioni di una figura statuaria e parimenti tragica, cesellata con scalpello fine tra amore e rancore, tra detto e non detto, in un crescendo emotivo che disorientava l’ascoltatore, non più così certo di parteggiare esclusivamente per l’eroina dopo aver guardato a fondo di quel cuore punto da stilettate di nevrotica tristezza. Di gran lusso anche il torreggiante Michonnet di Claudio Sgura, ben accompagnato dalle pregevoli presenze di Saverio Pugliese, abate di Chazeuil, e di Adriano Gramigni, principe di Bouillon. Da ultimo, eroico per coraggio e duttilità nell’entrare, letteralmente all’ultimo istante (a causa dell’indisposto Luciano Ganci), negli scomodi panni di Maurizio e della sua svettante, impervia vocalità, Samuele Simoncini, al debutto assoluto nel ruolo. Appalusi vivi. Per il Municipale, l’ennesima freccia al centro del bersaglio.
Elide Bergamaschi