Avvolgente Petrenko al Teatro Grande di Brescia

Foto Umberto Favretto.

BRESCIA Nitida, chirurgica, affilata. La bacchetta prodigiosa di Kirill Petrenko è, sì, tutto questo al suo sommo grado, ma anche l’esatto opposto. Un abbraccio avvolgente, irresistibilmente morbido, magnificamente seduttivo, capace di sorprenderti senza sosta. Nel suo gesto convivono un maniacale senso della misura ed un incontenibile invito alla danza. Irrequieto, gioioso, immerso in ogni singolo frammento di musica a cui dà vita, lo scorso 26 maggio il direttore siberiano che dalla Stagione 2019/2020 è alla guida dei Berliner Philarmoniker ha firmato, in un Teatro Grande di Brescia praticamente sold out, una di quelle serate di grazia destinate a rimanere a lungo nella memoria di un ascoltatore. Con lui, sul palco, l’Orchestra Sinfonica nazionale della RAI di Torino, letteralmente contagiata dalla sua bacchetta taumaturgica. Fiati evocativi, corno inglese da applausi, archi sempre plastici, percussioni spiritate. Nelle mani di un simil burattinaio, non c’è filo che non assecondi gli arabeschi del suo disegno. Ne era luminosa evidenza l’assaggio con cui, prima di tuffarsi nell’esecuzione integrale, Petrenko – affiancato da Ernesto Schiavi – ha condotto l’uditorio in una sorta di micro-prova generale del grandioso affresco dei Drei Orchesterstücke op.6 di Alban Berg. Qualche battuta, l’accenno di alcuni istanti pescati da momenti topici del trittico e conditi di alcune sottolineature esplicative, in un italiano che ha sorpreso tutti per fluenza e pertinenza. Ed ecco già l’alito della magia, la cristallina limpidezza di una lettura chiaroveggente che scava senza compiacimenti, esatta, infallibile ma al tempo stesso capace di disarmanti tenerezze, lapidaria senza inutili asprezze. Una degustazione necessaria, secondo il direttore, per accostarsi al mondo di frontiera di questo caposaldo della letteratura del XX secolo, scritto a cavallo del Primo conflitto mondiale ed intimamente carico, nelle fitte maglie di una scrittura dolorosa e affollata, degli echi di un mondo che proprio tra queste pagine sembra trovare il luogo per mettere in scena il suo tragico, definitivo naufragio. È qui che Berg si confronta per la prima volta con il mondo della grande orchestra. Ed è qui, un po’ per debito morale un po’ per istintiva assonanza, che l’universo mahleriano che tanta parte ricopre nell’immaginario del giovane Berg riaffiora, stravolto, spettrale, postumo. La siderale, indistinta lontananza della Prima Sinfonia, l’atto creativo nel suo primo impulso; la selvaggia, disperata furia della Sesta, là dove tutto è spazzato via da un’energia distruttiva senza scampo. In questi tre pannelli che da un aforistico Prludium sfociano nella catastrofica Marsch, Berg guarda retrospettivamente a Mahler quanto al sé stesso che, anni dopo, darà al suo Wozzeck la voce per cantare un anti-mondo sfigurato e deserto. In questo magma asciutto e torrenziale, l’ago di Petrenko procedeva, seguendo una bussola affondata nelle viscere della materia sonora, pescandone gli echi iniziali e di nuovo inabissandosi per coglierne, in ascolto, i ritmi segreti, qualche rombo inarticolato a cui dare, per faticosa progressione, il respiro dolente del canto. Un canto spezzato destinato ad essere di nuovo inghiottito dalle tenebre di un silenzio carico di voci. Prima del dilagare vorticoso, del quadro conclusivo, il Reigen centrale – girotondo allusivo, beffardo, sfuggente – si elevava a trasfigurazione folle, dolcissima e per questo straziante, di un valzer, relitto svuotato di ogni alito di vita. Nella seconda parte della serata, la caustica scrittura berghiana lasciava posto alla visionaria fantasia con cui Sibelius dà corpo alle leggende della sua terra, tra fanciulle, eroi, cigni, presagi. E, in un’intesa totale con il suo gesto, l’orchestra trovava immediatamente tinte più calde e subito dopo vaporose, un affondo più carnale, gli orizzonti lontani in cui lasciar correre frasi spianate, gonfie di vento e di desiderio. La Lemminkinen Suite op.22, dopo le urticanti atmosfere della prima parte, era un sontuoso affresco acceso da colori sgargianti, percorso da quartine articolate al millesimo, ad evocare sfiancanti cavalcate nel desolato nord, canti diafani affidati a clarinetto ed oboe. Quattro pannelli di morte e di rinascita, eroici, araldici, poetici ancora una volta plasmati da Petrenko a partire da un’idea germinale, intrecciando voci a voci con la perizia di chi, della compagine, conosce e sorveglia ogni respiro. Arazzi di strepitosa meraviglia orditi filo con filo, con la pazienza dell’abnegazione, senza mai perdere di vista la punta dell’ago, dritta a cogliere il nord della narrazione. Trepidante, vitale, saggio Petrenko. Erede, a suo modo, della sciamanica magia propria solo dei condottieri. Ma incapace di guardare anche al più puro dramma senza un impercettibile raggio di serenità di fondo, di umile, convinta accettazione dell’ordine delle cose. Ogni conflitto, anche il più aspro, con lui si risolve sull’ultima nota. E la musica tra le sue mani è ogni volta un contagioso, ineluttabile inno alla gioia.

Elide Bergamaschi