PARMA I ricercati – una donna ormai appesantita da un’avvenenza sfiorita e due uomini – escono da un fondale di cartone. Lasciano alle spalle una fuga rocambolesca e una taglia che pende sulle loro teste. Non rimane che cancellare le proprie tracce. Morire per il mondo e ricominciare da zero, fondando una città dal nulla, governata da leggi sovvertite in cui il lecito sia illecito, e la trasgressione legge. Benvenuti a Mahagonny, trappola sublime e spietata con cui Kurt Weill, su libretto di Bertolt Brecht, scolpisce un’umanità corrotta e vinta, intimamente marcia, irrimediabilmente perduta. La prima rappresentazione a Lipsia, nel 1930 e subito sepolta sotto il pugno della censura nazista. A Parma è arrivata per la generale lo scorso 26 aprile, a chiudere, con un cerchio perfetto, un cartellone inaugurato con l’operetta di Gran Teatro Reinach. Partitura- affresco, questa “Ascesa e caduta della città di Mahagonny”, mosaico di linguaggi che vede intrecciarsi, in una logica stringente in cui musica e libretto obbediscono, stridenti e conflittuali ma egualmente ferrei al medesimo imperativo, contrappunto e fox trot, valzer da café chantant e pagine di un sinfonismo acceso. Servirebbero dieci orchestre; invece ne bastava una, quella – valorosa – dell’Emilia Romagna “Arturo Toscanini” che, grazie alla magnifica duttilità di Christopher Franklin, abituato a trasvolare da un capo all’altro di un repertorio quanto mai eterogeneo, compiva, insieme al Coro del Regio istruito da Martino Faggiani, un autentico miracolo. Oggi come e più di ieri, Mahagonny è impietoso ritratto del nostro io più profondo, dell’inconfessabile pulsione che ci divora, dell’abisso che in un attimo è pronto a spazzar via ogni residuo di civiltà per ricatapultarci nella barbarie. Mahagonny è vinta in partenza, paese dei balocchi per anime perse e disilluse, immenso luna park di eccessi a portata di mano, di un’eterna partita a carte truccate. Nel suo baluardo surreale di libertà imposte e di leggi negate, ogni sorriso appare blasfemo, maschera stanca di ombre morenti. Perfetta per fare da calamita ad anime senza destino, a creature senza morale. Paradiso per bucanieri e taglialegna, prostitute e contrabbandieri, locali in cui il gin scorre a fiumi, tra nuvole di nicotina, orsi ubriachi e ragazze a seno nudo avvinghiate ad un palo da lapdance. Pancia, basso ventre, violenza: sesso, cibo, alcol elevati a paradigma, scardinati da ogni cornice, gemme malate di un piacere bugiardo. Una città dei morti, un miraggio illusorio. Le vocalità sono sguaiate, disperatamente strascicate, forzatamente allegre. In primis, quella, torreggiante, intrisa di dolore e di ridanciana disfatta, della vedova Begbick, una Alisa Kolosova sontuosa nel suo declamato tragico, quella dell’avido “procuratore” Fatty, un Chris Merritt a suo agio, al netto di qualche incertezza nell’intonazione, nei panni del bislacco truffatore, e dell’autorevole “Trinità Moses”, Zoltan Nagy, tremendo dispensatore di ultime verità. Non c’è niente di umano qui, ognuno recita a soggetto. Quando, tuttavia, il vento soffia via la polvere da quei profili opachi, sotto le frasi fatte di personaggi senza autore affiorano, lentamente, ricordi come spine, radici estirpate, orizzonti abbandonati chissà dove, chissà quando. Il dialogo tra Jimmy e Jenny, tra il taglialegna e la prostituta (i bravissimi Tobias Hächler e Anne Marie Kremer, poi sostituita, alla Prima, da una perfetta Nadia Machantaf) accenna a mutandine, prestazioni sessuali. Eppure, impossibile non sentire il palpitare di sentimenti che si fanno largo; Weill scocca il dardo di un duetto sincopato, esitante; e Brecht risponde con parole che dicono e non dicono. Il pudore è il principio dell’amore, e insieme l’annunciarsi della rovina. Per trattenerlo, occorre correre più veloce della notte, anticipare l’arrivo della morte, già addosso. Sì, perché a Mahagonny nulla è vietato, tranne l’essere umani. Animalesco è il muggire angoscioso, il martellare soffocato, dell’orchestra, quando l’uragano punta la città; animalesco è il suo abbandonarsi alla pazza gioia, scampato il pericolo: mangiare fino a crepare, bere fino a dimenticarsi di sé. La morte di Jack O’ Brien, un efficace Mathias Frey, è accolta con invidia dai presenti, suprema liberazione da ogni affanno. La supplica di Jimmy invece, querula e straziante, galleggia alla deriva. Lui, di avere un cuore, proprio non sa scordarsene. Scommetterà e perderà tutto ciò che gli rimane sull’amico Joe, disteso sul tappeto di un ring da cui non si rialzerà più. A Mahagonny sei il tuo denaro. Ogni cosa ha un prezzo, e tutto si vende, si compra, si paga. Prima che sulla città ormai in sfacelo scenda il giudizio di Dio, un dio tribale, dalle maschere precolombiane e dalle danze dionisiache (la regia, non particolarmente audace ma non per questo priva di sottigliezze e di una certa efficacia, porta la firma di Henning Brockhaus), scandite dalle lapidarie parole di Moses, Jimmy pronuncia un discorso dai toni evangelici. Ho mangiato ma non mi sono saziato, ho bevuto ma non mi sono dissetato. Il paradiso promesso era una trappola di morte. E lui finirà in un sacco nero, troppo simile a quelli che due mesi scandiscono un presente più surreale della più oscena fantasia. Quel corpo ormai senza nome è il sipario calato sulla città. Prossima recita sabato 30 aprile. Un’occasione a cui non mancare.
Elide Bergamaschi