BRESCIA Brescia e Bergamo. Vicine, sorelle e rivali, unite da una prossimità che da sempre ne ha reso la competizione ancor più stimolante e l’affinità più stretta. Da 60 anni, in un gioco di specchi che vede i due teatri cittadini contendersi prime assolute, folgoranti rivelazioni non meno che graditi ritorni, è il Festival Pianistico a portarne i nomi agli onori delle cronache internazionali. In questo 2023, inoltre, ad unire ulteriormente i destini delle due città è stata la nomina congiunta a Capitali Italiane della Cultura. Dopo gli anni tragici della pandemia che qui, nel cuore pulsante della Lombardia più operosa e produttiva aveva colpito come in nessun altro posto, è il momento del riscatto, ma anche di una rinascita nel segno della bellezza e della speranza. A suggellare questa duplice concomitanza sono state due serate attesissime, ad una settimana di distanza l’una dall’altra, che hanno visto un Teatro Grande di Brescia da tutto esaurito, come nelle grandi occasioni. Sabato 22 aprile, alla presenza del vicesindaco di Brescia e del sindaco di Bergamo, nonché del sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi, il palcoscenico è stato per la Filarmonica della Scala diretta da Riccardo Chailly, con solista il ventitreenne Mao Fujita. Lo scorso 29 aprile è stata la volta dell’Orchestra del Festival, diretta da Pier Carlo Orizio, con la presenza al pianoforte di Michail Pletnev. Mondanità, eleganza. Ma anche grande musica, come da sempre è segno distintivo di un cartellone che ha abituato il pubblico ad un distillato di primizie. Il filo rosso ad unire gli impaginati e, più in generale, la programmazione di questa edizione di Festival, era la voce di Sergei Rachmaninov, voce oggi celebrata nella doppia ricorrenza della nascita e della morte, nonché scrigno di un’anima russa oggi tragicamente spazzata via dalle martellanti cronache di un conflitto senza vincitori. A srotolare la cangiante tela del terzo Concerto in re minore op.30 era il giovane pianista giapponese, fresco di medaglia d’argento al concorso Čajkovskij di Mosca e soprattutto depositario di un’intelligenza pianistica acuta, sorgiva, sempre interlocutoria. In un’incalzante interazione con la compagine orchestrale, intenta a scolpire un affresco dai contorni netti, (fin troppo) svelati nel gioco delle polifonie così come nel rincorrersi delle voci interne, Fujita ha affrontato la tremenda pagina più con spirito cameristico che con il guizzo spavaldo del protagonista; una sopraffina arte di fioretto a trapuntare i timbri e i fili del canto delle varie sezioni, quasi mimetizzando il pianoforte nella pancia dell’orchestra, compensando una palette timbrica piuttosto circoscritta, mai troppo lontana, in un senso come nell’altro, da un morbido quanto uniforme mezzoforte, con un autentico cesello sulla frase. Ne risultava una sorta di diario sentimentale svaporato delle sue tinte più autentiche, delle escursioni emotive verso la disperazione così come verso il lirismo più struggente, quello che accoglie l’ascoltatore nella sconfinata, estatica immobilità del secondo movimento. Per contro, ad incantare era la minuzia da orefice del giovane pianista: un’articolazione finissima, un controllo assoluto a definire il dettaglio, l’istante, l’arabesco, lambendo così, senza catturarla appieno, una scrittura che si innalza e si dilata, sontuosa, inafferrabile. Un ordine ricondotto ad una dimensione raccolta, miniaturistica, dai toni pastello. A riportare Rachmannov nell’alveo del suo universo più saturnino, oscuro al limite dell’impalpabile, è stato il pianoforte di Michail Pletnev. Anche lui, condotto (per quanto un musicista così refrattario a qualsiasi guinzaglio si possa condurre) da Pier Carlo Orizio, alla testa dell’Orchestra del Festival di Brescia e Bergamo, ha distillato un Rachmaninov “minore” – sul leggio, questa volta era l’op.19 – asciugato di ogni vampata, mormorato in un sussurro che a tratti faceva di un legato quasi ipnotico un impercettibile pulviscolo sonoro privo di articolazione. Persino sulla soglia dell’Allegro scherzando conclusivo, quando la forsennata marcia lanciata dall’orchestra chiede al solista di sguainare le spade, Pletnev rinunciava a salire in cattedra. Ma in questo caso, a dare il passo alla sua visione era il senso dell’ineluttabile, del tragico. Una tragedia vissuta ad occhi asciutti, senza alcuna indulgenza, senza alcun tentativo di ribellarsi. Stoica e, per questo, eroica. A partire dal funereo motto accordale con cui il pianoforte introduce alla narrazione. Senza più lo smalto strumentale che lo aveva incoronato Medaglia d’oro all’edizione del 1975 del Concorso Čajkovskij, Pletnev lo ha affrontato al passo della pulsazione con cui l’orchestra ne avrebbe raccolto il filo e ne ha traghettato il canto attraverso una narrazione, ermetica, alonata, solo raramente aperta ad accogliere gli squarci di luce (e di affilatissimo virtuosismo) di una scrittura traboccante: il secondo tema del primo movimento, ma soprattutto l’intero mondo dipinto nell’Andante centrale. Pagine di pura stupefazione, al riparo dallo scintillio del Rachmaninov più roboante (e frainteso), oasi in un ascolto irregolare quanto avventuroso. Due mondi vicini e lontanissimi, con Fujita. Là, la grazia perfetta e vagamente manierata di una casa di bambole, qui il gorgo quiescente di un abisso. Torbido, in diversi momenti così introspettivo da risultare difficile da penetrare (chapeau alla direzione di Orizio, capace di stare a ruota dell’interprete indovinandone le bizze e gli scarti improvvisi) ma anche per questo avvincente. Il Festival prosegue fino al prossimo 16 giugno. Per info e prenotazioni: info@festivalpianistico.it.
Elide Bergamaschi