La chirurgia drammaturgica del Don Giovanni di Mozart

PARMA Un teatro che è lo scenario in cui si consuma la vita. Protagonisti e comparse, attori e spettatori, giudici e distratti passanti. Un unico mondo: il dentro e il fuori, il noi e il loro, così come incerta, ambigua, sfuggente è la legge che regola l’universo. Don Giovanni di Mozart è l’emblema perfetto dell’umana condizione, e insieme l’azzardo di una sua possibile smentita. La scrittura procede a folate, in una spirale che nel suo turbine finisce per inghiottire i destini e centrifugarli in un’unica vicenda, non dando tregua a chi si accomodasse in poltrona per mettere in pausa l’esercizio del pensiero. A distanza di vent’anni, la regia (qui ripresa da Raffaele di Florio) concepita da Mario Martone “in una notte insonne” continua a funzionare alla perfezione, ovvero a far pensare, a turbare e a disturbare, a confondere, ad incantare. Qualche mese fa era sul palco del Ponchielli di Cremona, prima di prendere la strada di altri teatri della provincia lombarda. In queste settimane è protagonista del primo titolo in cartellone al Regio di Parma. L’effetto non è altrettanto dirompente: stonano le ringhiere poste a protezione delle pedane protese verso il pubblico, segnando una sostanziale contraddizione tra un teatro intimamente fluido e spazi delimitati. Ma il meccanismo è comunque micidiale, con l’azione che sconfina in platea, esce dalle porte laterali, rientra dal fondo fino a portare in scena parte dell’orchestra. Spettacolo pirotecnico? No, piuttosto, un’operazione di straordinaria chirurgia drammaturgica, nel più mozartiano degli spiriti. Affilata, asciutta, imprendibile. Per Martone, Don Giovanni è la nostalgia, il blu indugiante di un sipario pronto a spalancarsi su una sorta di teatro elisabettiano allestito per una non ben precisata recita; ma è anche l’eterna condanna di correre a perdifiato su un filo proteso sul precipizio. Don Giovanni è l’ebbrezza della vita inarrestabilmente attratta dalla morte, da quell’abbraccio fatale con cui lo spettro del Commendatore inghiottirà il libertino, conducendolo a cenare nel suo regno di ombre. Su questo filo, in questo folle andare, non c’è sosta, non c’è tempo. Tutto si consuma con una voracità che non permette di gustare alcun frutto, così come la cena di don Giovanni, innaffiata da squisito Marzemino, viene interrotta dall’appuntamento con la propria sorte. Niente dunque trova compiutezza; occorre allora riprendere la corsa, cercare altrove, provare ancora, in un eterno girare a vuoto che ha come forza propulsiva l’insoddisfazione, in un gioco di specchi in cui ogni personalità si riflette, per contrasto così come per intima, sottesa analogia, nelle altre: il libertino cerca nuove prede da aggiungere allo sterminato catalogo, il cinico Leporello nuove occupazioni una volta rimasto senza padrone, donna Anna cerca vendetta alla sua disonorata reputazione così come donna Elvira, con la follia che è solo degli amanti, cerca amore. Come può, tutto questo, essere commedia? E come può, per le stesse opposte ragioni, non suscitare una divertita, complice simpatia, mista ad una punta di indulgenza? Dramma giocoso, suggerisce ossimorico Mozart, facendo il paio con l’alter ego Da Ponte. Come dire tutto e niente. Per questo, già dalla sfinge occhieggiante del sottotitolo, è sempre un’impresa trovare la chiave di un chiaroscuro emotivo in cui un sorriso non è mai solo un sorriso, e viceversa, una tragedia non sa mai reggere più di un battito d’ali prima di mutarsi in gioia e quindi in farsa, perpetuando quella millimetrica circolarità che sovrintende l’intero marchingegno. Se questo è in scena, in buca è qui il braccio di Corrado Rovaris a condurre le danze, perfettamente allineato alla visione registica. Asciugato del brivido di brusche virate, di colori e dinamiche elettrizzanti, raffreddato rispetto ad un’attesa di contrasti estremi, disilluso rispetto all’esteriore patina macchiettistica e parossistica che avvolge la vicenda, non più di quanto non faccia l’involucro di un cioccolatino, il suo Don Giovanni respira da subito di una leggerezza nitida e amara, corre e scorre senza eccessivi nervosismi, trovando nella mercuriale linearità del passo – una danza viva ma mai esagitata tra opposte situazioni espressive, non spavaldamente esibita ma piuttosto divorata da una tensione interiore, un tormento, uno scavo che si insinua nelle linee interne, nell’affiorare dei severi contrappunti e del lato meno esposto della scrittura mozartiana – la chiave per un approccio tanto prezioso quanto efficace. Serve tempo per abituarsi, ma una volta entrati nel teatro interiore delineato dal direttore bergamasco ci si trova di fronte ad un’opera che non ti aspetti. Un territorio aspro e desolato, una terra di nessuno, esattamente come di nessuno è la scena, costellata da sparuti manichini, superstiti inanimati di una sera al dì di festa, sugli spalti di un teatro ormai deserto. Qui il canto degli interpreti diventa monologo, solitario sguardo al proprio vivere in cerca di un approdo, di una ragione, di una scintilla. Vito Priante tratteggia un protagonista vocalmente solido anche se non del tutto a fuoco nell’abbracciare in un unico prisma le mille facce espressive del suo personaggio. Scenicamente più convincente, seppur per le stesse ragioni non pienamente risolto, lo speculare Leporello di Riccardo Fassi. Autorevole e ben delineata ma solo pallidamente impietosa è la figura del Commendatore di Giacomo Prestia. A chiudere la rosa di voci maschili, il calibrato don Ottavio di Marco Ciaponi – belli il fraseggio e il legato, sempre un po’ rigida la presenza in scena – e l’esuberante Masetto di Fabio Previati. Svettante il versante femminile, con il duello di bravura tra la rabbia di donna Anna – una Mariangela Sicilia di intensa drammaticità e di magnifica tenuta – ed il furore di donna Elvira, a cui Carmela Remigio offe uno strumento vocale rifinito. Completa il cast la Zerlina, perfettamente equidistante tra malizia ed ingenuità, di Enkeleda Kamani. Applausi anche al sempre puntuale coro del Regio, preparato da Martino Faggiani. Prossime recite giovedì 19 gennaio, alle ore 20, e sabato 21, alle ore 17. Per informazioni e prenotazioni: www.teatroregioparma.it

Elide Bergamaschi