Le penellate gotiche de Il Barbiere di Siviglia al Ponchielli

CREMONA “Piano, pianissimo, senza parlar”. Per chi frequenti l’opera nelle recite della domenica pomeriggio – notoriamente riservate ad un pubblico eterogeneo tra cui tuttavia spiccano irriducibili comitive di melomani che da una vita battono il territorio palmo a palmo, a caccia di arie e cabalette – il ronzio del canticchiare di un vicino di poltrona è compreso nel prezzo del biglietto. Ci si tuffa nel gorgo della musica, e si dimenticano le conseguenze della propria simpatica molestia. Al Ponchielli di Cremona, lo scorso 10 ottobre, per la seconda del Barbiere di Siviglia che ha aperto il sipario della stagione lirica 2021/2022, il rito non ha mancato di perpetuarsi. Ma era francamente difficile, nell’incalzante conduzione di Jacopo Rivani alla testa dell’Orchestra de I Pomeriggi Musicali, non finire negli ingranaggi micidiali di quello sferzare impietoso che a folate un po’ sommarie ma complessivamente efficaci, soffiava sull’iperbolica Ouverture. La scena concepita dalla regia di Ivan Stefanutti, con le luci di Fiammetta Baldiserri, disegna una Siviglia che prima di rivelare archi moreschi e decorazioni arabeggianti appare intinta in un romanzo gotico inglese. Notte, gatti randagi, l’incombere sulla piazza della sagoma di un enorme orologio, simbolo del tempo che fugge e che fatica a scorrere; tempo, di una vita ormai al ponente il primo; tempo di una passione che brucia e che ha fretta di sbocciare, il secondo. Qui fa il suo ingresso il conte d’Almaviva, appostato sotto le finestre dell’adorata Rosina, la giovane che il vecchio don Bartolo tiene segregata in casa nella speranza di sposarla un giorno. Nella macchina teatrale rossiniana, la cosa è quasi combinata; sarà il brillante Figaro, barbiere votato alle nobili cause, a fornire agli innamorati la chiave per gabbare il vecchio tutore e coronare il loro sogno d’amore. A vestire i panni del celeberrimo factotum della città è Gianni Luca Giuga, bel piglio scenico ed una spiccata duttilità espressiva al servizio di una voce esile ma intrigante. Altrettanto convincente, anche se inizialmente in affanno nell’articolazione e nella timbratura di passaggi agilità, il Conte di Matteo Roma. La Rosina di Chiara Tirotta, dopo un esordio timido trova nella lunga distanza le giuste misure per delineare con autorevolezza un profilo di donna scaltra e smaliziata, così come disegnato con pregevole precisione è il don Basilio di Alberto Comes. Ma gli appalusi più grandi vanno al “distopico” Bartolo di Diego Savini, in scena a mimare se stesso mentre, a prestargli voce e corpo, in quanto indisposto, è un torreggiante Enrico Maria Maravelli, orafo nobile ed araldico della parola cesellata nell’espressività di ogni sua sillaba. Nel suo canto, dal palchetto laterale, una lezione di drammaturgia pura, perfettamente compenetrata con il gesto del direttore. Applausi scroscianti di un Ponchielli che proprio sulle note del Barbiere chiude la drammatica pagina delle restrizioni e si appresta a tornare a capienza intera. Intanto, la carovana di Figaro fa le valigie per raggiungere Brescia, dove domani sera e domenica pomeriggio farà tappa al Teatro Grande.

Elide Bergamaschi