Robert Treviño protagonista al Paganini

credit Luca Pezzani

PARMA Serata difficile, in salita, almeno sulla carta. Pioggia fastidiosa, umidità pungente ma, soprattutto, un appuntamento in contemporanea al Teatro Regio. Con il pubblico costretto ancora una volta all’ingrato compito di lasciare, quando una concertazione più funzionale tra realtà culturali cittadine avrebbe consentito di raddoppiare. Peccato. Eppure, lo scorso sabato 8 febbraio, a Parma, il colpo d’occhio sulla sala rivelava un Auditorium Paganini al quasi tutto esaurito, accorso per l’imperdibile Mahler della Quinta Sinfonia diretta da Robert Treviño. Dopo la Sesta Sinfonia di Čajkovskij affidata alla bacchetta di Oleg Caetani, sul leggio della Filarmonica Toscanini (che ritrovava il saldo riferimento di Mihaela Costea) torreggiava, a stretto giro di posta, un altro monumento assoluto. Due direttori antipodici, tanto da dare come esito la percezione di due orchestre differenti. Introverso al limite dell’opacità Caetani, viandante intimidito tra le acque della Patetica, prudente nell’affrontarne il gorgo nero così come nell’abbandonarsi alla sua morente foce, quanto trionfalistico Treviño. Nello smagliante stacco impresso dalla tromba (il bravissimo Matteo Fagiani), quell’incipit annunciante la Marcia Funebre già proiettava l’ascoltatore in un universo pervaso di energia tellurica, ben lontano dal fatalistico alone tragico di cui l’affresco della Quinta è imbevuto; un mondo elettrizzante, ostentatamente, sfacciatamente esteriorizzato, steso a generose colate di decibel. Nel cesello del direttore americano c’era tutto: ogni voce, ogni segno della foresta-mondo in cui il compositore boemo si perde e si svela, si muove e si smarrisce. Ma tutto finiva per scivolare via (paradossalmente) leggero, frettoloso, solo superficialmente toccato dal tumulto di echi lontani, dall’irrompere sgraziato e presago di anonime presenze catapulte in scena. Ecco, quello esibito da Treviño era lo sfoggio di un abbraccio spettacolare, roboante quanto incapace, di fronte a momenti come, ad esempio, lo struggente affiorare del secondo tema del primo movimento, di distillare dalle corde della compagine emiliana quell’umanità, quella sconfinata tenerezza che in più riprese sembra mozzare il fiato ed insinuare le dimensioni dell’estatico ma anche del febbrile. In questa visione in cui le screziature, le ruvidezze, le aspre contraddizioni di una morente Mitteleuropa finivano catapultate in una sorta di abbacinante set della Marvel, anche la luce nascente dei filati di frase, ondeggianti tra lo spegnersi e il riapparire, veniva colpito dal raggio irruento di un’aurora impudica che trasformava quello strascicato, doloroso cammino per aspera ad astra in un incalzante film d’azione. Qui, l’irruzione, lo squarcio, l’introdursi di figure e profili stranianti, anziché avere a che fare con lo sgomento e con l’estasi – ovvero con la purezza di una dimensione intatta, autentica – apparivano, paradossalmente, parte di un copione di fronte al quale si faticava a sorprendersi. Strepitosamente incalzante eppure, proprio in virtù della sua stessa inossidabile ipercinesi, compiaciutamente fermo di fronte alla macchina da presa. Lì tutto – i baci, le lacrime, i lutti – finisce per risultare effimero, ruffiano. Anche lo smalto degli intarsi delle singole sezioni, che il Maestro tirava a lucido (senza mai, però, articolarne la pronuncia, la “voce”), con le viole in tesa, ancor prima dei fiati, diceva bene i trapassi, i sussulti, le rese, ma più come spavaldo esercizio di stile che come autentica incarnazione. Sul fondale, lasciate perlopiù cadere da questa inesorabile macchina da guerra, finivano le sottigliezze, i sottesi, quelle straordinarie miniature che costituiscono il sottobosco mahleriano. Ai margini di quel tumulto, abita lo spirito di un mondo che, sabato sera, ci è un po’ mancato. Nell’inesorabile incedere del primo movimento, nella bombastica ostentazione dello Scherzo, condotto a grana grossa attraverso la sua sbilenca trivialità, senza percorrerne quell’ebbrezza precaria, quella nostalgia struggente, che sono la porta di accesso su un mondo in rovina, lì, al di là di quella soglia. E nell’Adagietto, sublime ritratto di un istante di grazia già svaporante in ricordo, nella cui filigrana il compositore colloca il profilo dell’amata neosposa Alma, qui risolto in un blocco estenuato, incapace di vincere l’opprimente gravità e farsi canto sospeso.
Elide Bergamaschi