Addio all’ostetrica che ha fatto nascere generazioni di uomini veri

MANTOVA Le avevano dato il nome di Isabella, ma tutti la chiamavano Marisa. Marisa Mazzocchi crebbe in campagna e, uno dei suoi sogni di giovane donna era quello di diventare una hostess. La madre piangendo le aveva detto: “Se decidi di fare questo lavoro, mi farai morire prima”. Più che a malincuore lei decise allora di riprendere gli studi e iscriversi alla scuola di ostetricia. Quello dell’ostetrica poteva rappresentare il mestiere adatto al proprio carattere, lei, così bisognosa di fare, di dare il meglio di sé, dotata di dolcezza infinita. Con serietà scrupolosamente intraprese la scuola adatte da cui uscì a pieni voti.
Così giorno dopo giorno, per più di cinquant’anni, fece nascere un incredibile numero di bambini. Le dita delle sue lunghe mani ossute erano diventate artigli capaci di trattenere il piccolo mentre emetteva il suo primo vagito. Ogni qualvolta si parlava di lavoro ammetteva che il suo era il più bel mestiere del mondo. “Nessuno – diceva – può capire cosa si prova quando prendendolo per i piedini il piccolo saluta la vita”. Con tenerezza quasi materna allontanava dalle proprie pazienti qualsiasi amarezza perché, diceva “i giorni dell’attesa devono trascorrere in serenità”. Quando arrivava il giorno capivano entrambe, mamma e ostetrica, che fra di loro era corso qualcosa di più della tecnica e dell’esperienza, bensì un attaccamento simile all’affetto che le avrebbe accompagnate sino al momento in cui il piccolo si sarebbe presentato alla vita e alla società in piena salute.
Quanti bambini avrà fatto nascere, le è stato chiesto un giorno. “Mi sfugge il conto – rispose –. Ho assistitio a tanti parti domiciliari, ho lavorato in tanti ospedali, ultimo dei quali il Carlo Poma, dove ho trascorso più di venti anni. Quindi non riuscirò mai a fare il conto giusto. Eppure la mia mente trattiene ancora i vari travagli, e più che nella testa li ho vicini al cuore. Di certi parti ricordo ogni passo: le incertezze, le paure, e poi i sospiri di sollievo, e infine le gioie”.
Era pienamente convinta di avere operato ogni volta con coscienza e responsabilità. Ieri il suo cuore smettendo di battere a 87 anni ha portato con sé il ricordo di notti insonni, di ore e ore trascorse al capezzale delle pazienti, dei vagiti acuti o stizzosi dei piccoli, ma più di tutto di avere tenuto fra le dita quei piccoli esseri che un giorno sarebbero diventati donne e uomini.
Amava le farfalle, la loro libertà. Si incantava ai loro colori, le rincorreva e se le riusciva di accalappiarne una, le teneva per ore sul palmo godendo della loro bellezza; poi con un leggero soffio le rimandava nell’aria. Non ci sono dubbi: lassù l’avrà accolta un nuvolo di luminose farfalle.
Giovanna Tanelli