MANTOVA Non è una silfide: avesse lasciato crescere la barba, avrebbe potuto confondersi con Bud Spencer.
E in comune col grande attore, recentemente scomparso, Alfredo Facchini, in arte Fredòn, ha il nuoto che ha praticato in gioventù, servito a sviluppare il fisico e l’appetito. Ancora oggi, alla vigilia del suo 90esimo compleanno (una valanga di auguri), l’Alfredo non si tira indietro.
Forza dell’abitudine, della deformazione professionale; per tenere allegri quelli che vanno ad ascoltare le sue “quartine”, bisogna avere dentro qualcosa in più: ottimismo, voglia di vivere, di capire come sarà il mondo domani. E naturalmente talento. Soprattutto occorre essere dotati di una memoria di ferro: al suo confronto il signor Pico della Mirandola, era poco più di un dilettante.
Avendolo spesso frequentato, ci siamo riempiti le tasche di appunti per poterli poi riversare su altri amici.
E’ pur vero che per lui raccontare, far ridere è diventato un lavoro, ma è altresì vero che Facchini ha capacità mnemoniche da leader. E poi, essendo nato in sla Fèra, ha ben presto abbracciato l’idioma che identifica chi è nato in riva ai caplas, ai fior di loto: il dialetto.
Quello vero, quello di città. E allora d’incanto ecco svilupparsi il professor Facchini che in particolare sulla scrittura, non transige. Anzi, si arrabbia, diventa collerico.
Ha fondato e difeso fin che ha potuto, il Fogolèr, cenacolo di coloro che alla lingua italiana, preferiscono il più immediato ed espressivo dialetto.
Difficile da parlare ma ancor più da scrivere. E così il professor Facchini, che ha inventato la grammatica del vernacolo, quando legge alcuni scritti non in regola, si incendia.
Questo è l’Alfredo due, nelle rigide vesti di insegnante specializzato in dialetto.
Parlato e scritto.
C’è poi la terza faccia di Facchini, quella che noi privilegiamo ma che probabilmente non gli ha dato le soddisfazioni che si meritava: Alfredo è un poeta a tutti gli effetti, che riesce a commuovere anche nella lingua più immediata, più sincera: il dialetto.
La sua “Tramont in sal lagh ad s’ora” è fantastica.
State a sentire. “Gras c’me ‘na bala/ al sol intant pian, pian/ l’era rivà da i Angii pôc lontan/ e tra i canèr, ma con un pò d creansa/ al fava ‘l bagn fin a metà pansa/ Ma forse, al’gheva gnanc i mûdandin/ parchè quand l’ho vardà, l’è gnü rosin/ pò ‘l s’è sbasà tra l’acqua e tra i cürot/ e li, l’è restà scos finché gnü nõt”.
La bibliografia di Fredòn è una prateria e altrettanti sono i premi a i riconoscimenti che ha ricevuto, anche nei paesi più lontani nei quali è stato invitato e si è esibito.
Adesso, che festeggia i suoi primi novant’anni, dice che è solo a metà dell’opera. E visto il fisico che si ritrova, c’è proprio da credergli.
Grazie per tutti questi tuffi nel passato: il dialetto è un patrimonio che va purtroppo perdendosi: stringiamoci a Fredòn, non lasciamolo solo nella battaglia che da anni sta combattendo.
Parla come at magni: il menu è quello di casa nostra. E di nuovo una sporta di auguri per questo ambito traguardo.
Lo dicono persino i dietisti: il dialetto fa bene, allunga la vita. (a.g.).