Carolin Widmann trascina la Filarmonica Toscanini

foto Luca Pezzani

PARMA Chissà se un giorno smetteremo di subire come un’eterna rivelazione l’incanto del violino di Carolin Widmann, un Guadagnini del 1782 che, solleticato dalle dita dell’interprete, ne rende materiale, fisica, una natura musicale cristallina, fatta non solo di sovrano sfavillio tecnico ma anche di pensiero, sensibilità e istinto rari. Un suono così esatto, nitido, a fuoco nella pungente anima che lo accende, trepidante ma mai capriccioso, nordico nell’austera sobrietà del suo annunciarsi. La fondazione Toscanini, in occasione dell’inaugurazione della Stagione Sinfonica 2023 2024 dello scorso 21 ottobre – la più bella degli ultimi anni, almeno sulla carta – ha voluto questa straordinaria interprete a firmare il primo appuntamento in cartellone. Sul leggio, due donne, due uomini, ovvero i destini intrecciati di due famiglie nei cui salotti è transitata l’anima pulsante e visionaria del Romanticismo tedesco. Da un lato, i Mendelssohn, Fanny e Felix, dall’altro gli Schumann, Clara e Robert. Fratello e sorella, marito e moglie, ossia una sorta di elettiva, primigenia Dabidsbund in cui la circolarità di spunti, idee e ideali fa delle loro vite una trama indissolubile, fino a quando la morte coglierà, prematuramente, uno dopo l’altro, tre di loro. Ascoltare, a distanza ravvicinata, i due Concerti in Mi minore di Mendelssohn e in Re minore di Schumann, così lontani per esito e destino, era occasione per percorrere, una dopo l’altra, nelle loro mille risonanze, le esistenze umane e creative di questi due giganti. Ma a rendere ulteriormente prezioso il concerto dello scorso sabato 23 ottobre era anche la “sfinge” bachiana, posta in apertura, nel calco delle tre Fughe tratte dal Clavicembalo ben temperato che Clara compone proprio su temi del Kantor. Tἅgliche Brot: è pane quotidiano la frequentazione di entrambi gli Schumann con il magistero bachiano, con la somma lezione di contrappunto e di drammaturgia insita in ogni sua pagina, lezione che contaminerà, attraverso riferimenti ora espliciti ora più sottesi, ogni pagina del loro vivere e comporre. Allo stesso modo, pane dello spirito era Bach anche per l’eclettico Mendelssohn, Felix Meritis per l’amico Schumann, grazie al cui strenuo impegno la riscoperta e la valorizzazione dell’opus bachiana è avvenuta. E, dall’altra parte dello specchio, in questo gioco di rimandi, la voce di Fanny si innalzava limpida, audace, rilucente di sapienza, ben oltre il ruolo ancillare di sorella del più illustre fratello. Questa la cornice. Ma al centro del quadro, tutta la tela era per loro, gli uomini, ed era per lei. Una Widmann che ha autenticamente trascinato la Filarmonica Toscanini, dettando subito un passo sferzante, severo, anche là dove il lirismo della frase invitava ad una più seduttiva, mediterranea indulgenza. Il capolavoro di Mendelssohn, percorso un fremito di purissima, mistica esaltazione, srotolato a partire dal canto che si innalza, in apertura, sul pulsare lontano dell’orchestra ancora avvolta nelle brume, e che detta la temperatura al racconto: visionaria, ma anche immensamente poetica, già presaga del ripiegamento riflessivo, dolcissimo, di quel secondo tema in cui tutto si quieta in un’oasi di immacolata stupefazione. E, pagina dopo pagina, nella libertà di una conduzione senza le sempre stringenti briglie di un direttore, la Widmann trovava alla testa della ciurma un calore sempre più colloquiale, sempre più rotondo nella sua crepitante anima, deciso a svelarsi e, finalmente, a raccontare. Un’articolazione minuziosa, nel distendere le linee del canto, nel ricamare con grazia danzante, in punta di fioretto, il gioco di micidiali quartine. E, insieme a tutto questo, il fuoco vivo, la vampa leggera di un fraseggio proteso in avanti, inesorabile nello sferzare un’orchestra a tratti in affanno nell’assecondare l’argento vivo della solista. Pagina dalle tinte decisamente più scure e dalla densità quasi dolorosa, figlia dell’ultimo periodo creativo prima del tentato suicidio nelle acque del Reno e del conseguente ricovero nella clinica di Endenich, il Concerto in Re minore di Schumann consegnava alla Widmann la straordinaria possibilità di confrontarsi, a distanza ravvicinata, con un altro (l’altro?) caposaldo della letteratura romantica per violino e orchestra. Un confronto che, anziché eludere, schiacciando gli estremi sul medesimo generico piano di un vago romanticismo estetizzante, l’interprete affrontava appieno, dando evidenza proprio agli aspetti più contrastanti dell’opera, quelli per i quali, complici il dedicatario Joachim e la vedova Clara, il Concerto era stato seppellito sotto la polvere del tempo e della censura. Troppo forti, seppur sottili, le “eresie” rispetto alle convenzioni, troppo inquietante, pervaso com’è di presenze, di echi – Schumann, ormai confinato, tornerà sul lancinante tema del secondo movimento per cucire un grappolo di Variazioni – troppo “moderno” nella fitta stratificazione dei suoi elementi interni. Un canto del congedo, ma anche della ricapitolazione. Immergendosi senza esitazione nelle sue acque, attraverso un cammino catartico che dallo scuro gorgo del primo movimento giunge alla conclusione dove, a sorpresa, affiora un rasserenato, conciliante ritmo di polacca, la Widmann ha imposto il suo tratto autorevole, araldico e, con esso, la forza irresistibile del suo sguardo acuto, pronto a cogliere, della partitura, verità e confessioni che, dal 1937, data della riesumazione del Concerto – sotto l’infelice egida della propaganda nazista – non smettono di interrogare tanto l’interprete quanto l’ascoltatore. Applausi vivissimi da parte di un Auditorium gremito.

Elide Bergamaschi