“L’outlet? Il posto più in per un concerto”: Roberto Vecchioni

MANTOVA «Che bello tornare a Mantova, una perla in mezzo all’acqua. Un centro meraviglioso, donne bellissime, un posto dove si assapora la piacevolezza di un tempo che si è fermato. Sono proprio contento». Nemmeno il tempo di fare la prima domanda e Roberto Vecchioni mette subito le cose in chiaro; non sarà un’intervista canonica, ma una chiacchierata, a tratti illuminante a tratti divertente.
Roberto, noto che sei felice di tornare nella nostra terra. Incuriosito dalla location, il Mantova Outlet Village?
«Ma va là, oggi l’outlet è il posto più in dove fare concerti; ne ho fatto uno recentemente in Puglia. Si tratta di luoghi in cui c’è molto spazio, molta luce, molta apertura. È una situazione in cui mi trovo davvero bene».
Tu sei uno degli ultimi cantautori della “vecchia scuola”. Oggi quelli che sono chiamati cantautori hanno tatuaggi sul volto, fanno trap e indossano abiti da migliaia di euro: che cosa è successo?
«Semplice, cambiano i tempi; ogni epoca ha i suoi cantautori. Noi ci siamo focalizzati su un concetto di bellezza e di mondo molto platonico, ma nessuno era uguale all’altro. I cantautori di oggi, che hanno avuto padri come Jovanotti e Caparezza, sono tutti uguali, ma la gioventù è appagata e gratificata dal loro ascolto. Alcuni, a dire la verità, li ascolto anche io».
C’è una strofa di “Chiamami ancora amore” che recita “Per il bastardo che sta sempre al sole / Per il vigliacco che nasconde il cuore / Per la nostra memoria gettata al vento / Da questi signori del dolore”: ti aspettavi che dopo cinque anni fosse ancora così attuale?
«Purtroppo sì, me lo aspettavo. Guarda solo la prima strofa “E per la barca che è volata in cielo /Che i bimbi ancora stavano a giocare / Che gli avrei regalato il mare intero /Pur di vedermeli arrivare”. Però, la canzone ha una particolarità: non si sa chi sia a parlare nè a chi si rivolga. Ma non ti svelerò questo mistero (ride,  ndr)».
Ho avuto modo di ascoltare dal vivo “Giulio”. L’ho trovata molto delicata, ma alla madre di Giulio Regeni non è piaciuta. Cosa pensi del polverone che si è innescato?
«Mi sono stranito, non ho capito il motivo delle critiche; anche se non le condivido, rispetto l’opinione della signora Regeni. Non ho mai voluto strumentalizzare Giulio, ho solo desiderato raccontare il sentimento materno nei confronti di un figlio».
Che effetto ti fa sapere che tra qualche anno le Luci a San Siro saranno spente e che lo stadio sarà demolito?
«Non è una bella cosa, anche perchè stiamo parlando di un monumento. Anche se non è ancora sicuro che lo demoliranno».
Cosa si sente di dire il Vecchioni di oggi al Vecchioni di una cinquantina d’anni fa? E a quello che verrà?
«Molto “borgesiana” come domanda. Al me stesso del passato direi di non essere così pieno di sè, di parlare meno e di comprendere più a fondo il concetto di fede. Al me stesso del futuro auguro semplicemente di godersi tanti momenti con la famiglia, di giocare, di scherzare e, sì, di cantare».
L’Italia di oggi a quale tua canzone assomiglia di più?
«Non ho mai fatto canzoni propriamente politiche, quindi faccio fatica a rispondere. Però penso che per questa Italia non serva la fantasia al potere, ma serva una realtà umanitaria. Siamo il paese più difficile al mondo, dove accontentare tutti è impossibile. Poi, vedendo il momento politico che viviamo, voglio sottolineare una cosa: tutti dicono “andiamo al voto”, “parola al popolo”. Ricordiamo però che la democrazia non è fatta dal popolo, ma dai suoi rappresentanti. Il popolo non ha la conoscenza della globalità delle cose, il rappresentante sì».
Ed è game, set, match di Vecchioni al facile populismo.

Federico Bonati