Quel pasticciaccio bello di Tamerlano

PIACENZA Quel pasticciaccio bello di Tamerlano. Pasticciaccio in quanto découpage, costruita con pagine riciclate, citazioni e giustapposizioni di pannelli compositi, per convenzione firmata da Vivaldi ma in realtà frutto di più mani. Andata in scena per la prima volta al Filarmonico di Verona in occasione del carnevale del 1735, l’opera è in queste settimane in tour per i teatri emiliani. Debutto a Modena, epilogo tra domani e domenica a Reggio Emilia. Trionfale tappa mediana, la scorsa settimana, al Municipale di Piacenza, che in attesa dell’atteso (sì, il gioco di parole ci sta: in cartellone in primavera 2021, poi fermato dalla pandemia) Debussy di Pelléas et Mélisande, nel segno del più rutilante barocco ha aperto il sipario della programmazione annuale. Chi potesse agguantare le ultime recite, corra. Il primo motivo è perché la squadra che governa il mondo di là dalle quinte – regia, luci, scene, costumi – sa scavare all’unisono nella complessa vicenda di rivalità intrecciata ad amore e riportarla ad un eterno tempo sospeso. Uno spazio astratto, quello disegnato da Stefano Monti con le scene dipinte di Rinaldo Rinaldi e Maria Grazia Cervetti e le illustrazioni di Lamberto Azzariti, abitato dalle creature di Vincenzo Balena, sculture tutte nervi tesi, arcane nella loro potenza millenaria. In questo paesaggio sulfureo, i personaggi, a partire dai due monumentali sovrani contrapposti dal destino e dalla storia, si muovono, tallonati da un loro rispettivo doppio interpretato dai danzatori della Dacru Dance Company. I loro movimenti nervosi, perennemente attraversati da sussulti, scatti, impulsi, mimano, sottolineano, tradiscono – nei costumi tutti pelle, spalle imbottite, anfibi – la guizzante mercurialità della scrittura, delizia per l’ascoltatore a caccia di prodezze servite su piatto d’argento, vera e propria croce per gli interpreti. Il secondo motivo è la parte musicale, a partire dalla compagnia di canto qui assemblata. Su tutti, l’eleganza sottile di Delphine Galou, Asteria indisposta – come annunciato in apertura di spettacolo – e certamente meno timbrata del solito ma non per questo meno preziosa nel cesellare le sfumature di un personaggio fiero e profondo, da eroina greca. Non meno convincenti le altre due figure femminili del dramma: l’intensa Idaspe, magnificamente tratteggiata, di Giuseppina Bridelli e l’altrettanto marmorea Irene di Shadek Bar, tutta sciabolate di luce servite con uno strumento vocale di pregevole calibro. Una lezione di acuta introspezione sono anche i profili dei due protagonisti maschili. Tamerlano trova in Filippo Mineccia l’irresistibile arroganza, esaltata da un’inossidabile linea di canto, della giovinezza: un condottiero audace, palesemente narciso nell’oro liquido di fraseggi nobilissimi. Stridente, nella poderosa fisicità che si fa parola, canto, furore, è il Bajazet di Bruno Taddia. A completare il cast, da subito magnifico per adesione, plasticità, naturalezza, l’Andronico di Federico Fiorio, sopranista di razza. Dal par suo, l’Accademia Bizantina, sferzata già a sipario chiuso dall’implacabile pungolo di Ottavio Dantone, con il sontuoso Alessandro Tampieri come spalla, è una meraviglia di vivissima drammaturgia. Tutto plasmato con le mani dentro alla frase, a sollecitarne il dire, a solleticarne l’insinuare, a proteggere i silenzi. Il barocco di questo Tamerlano è un teatro traboccante di energia, furia cristallina percorsa da un rovello che la brucia nel magnifico guazzabuglio dei suoi contrapposti affetti.

Elide Bergamaschi