MANTOVA Chissà cosa avrebbe pensato Leon Battista Alberti, studioso e promotore delle chiese a pianta centrale, se avesse potuto assistere a un incontro dedicato al rugby proprio di fronte all’ingresso della sua Basilica di Sant’Andrea.
E ancora cosa avrebbe detto a riguardo dell’imperfezione del rimbalzo della palla ovale – contro la perfezione del cerchio teorizzata dall’architetto genovese – ma solo per i meno esperti perché in realtà, ai grandi giocatori di rugby, la palla rimbalza in mano.
La lezione di rubgy, con tanto di lavagna, tenuta da Marco Pastonesi, giornalista della Gazzetta dello Sport, in piazza Mantegna ha raccontato un pezzo di storia della disciplina.
Prima la parte teorica. Quello della palla ovale è l’unico gioco che prende il nome dal suo luogo di origine, Rugby, una cittadina nella contea del Warwickshire in Inghilterra, poi portato in Nuova Zelanda dai galeotti inglesi spediti dall’altra parte del mondo. Il gioco inglese è comunque diverso, più duro, di quello neozelandese, più aperto. L’arbitro in campo ha una missione perché spiega le regole ai giocatori anche durante le fasi di gioco.
Poi spazio alla pratica. La regola della palla indietro con le mani è sinonimo di uno sport dove l’uno ha bisogno del sostegno dell’altro, del compagno di squadra. Da soli non si va da nessuna parte. Una metafora di vita. Così come i piloni sono i pliastri di una squadra, le fondamenta di una casa o di una famiglia.
Infine, il grande campione, Jonah Lomu a cui è dedicato il libro di Pastonesi “L’uragano nero”. Il giocatore degli All Blacks che il 18 giugno 1995, in occasione della terza edizione della Coppa del Mondo, nella semifinale con l’Inghilterra ha riscritto la storia del rugby mettendo a segno una meta dribblando tre avversari: venticinque passi, trentacinque metri in soli sette secondi.
E il pubblico seduto sulle scale della Basilica si è entusiasmato come se si fosse trovato ad assistere a un incontro dalle tribune di uno stadio di rugby.
Tiziana Pikler