Calderoli alla Voce: “Sovranismo? Brutta parola. Meglio dire autonomia”

Calderoli e Dara

MANTOVA È un nome storico della Lega quello di Roberto Calderoli; addirittura il suo nome stesso è legato a una tradizione familiare di autonomisti. Ieri la sua presenza nel mantovano per documentare una storia fatta di militanza e ppassione, ma oggi, dati gli eventi, anche di forti preoccupazioni.
Senatore, Pontida 1990, Pontida 2022. Cosa è cambiato da allora a oggi?
«Beh, la prima volta, nell’89, eravamo una cinquantina di persone: nel ’90 c’era il palco ed eravamo già Lega Lombarda e Bossi stava mettendo assieme le varie leghe, dalla veneta e piemontese a quelle emiliane eccetera: insomma, i varî movimenti autonomisti che sarebbero confluiti nella Lega Nord. Fra l’altro, l’ho detto ieri, è lo stesso percorso che fece mio nonno col movimento autonomista bergamasco, il Marpa. Pensi che quel famoso manifesto delle galline dalle uova d’oro che venne adottato da Bossi, era di mio nonno. Allora era tutto basato su federalismo e autonomia coniugati a livello di sindacato del nord, inteso appena sopra e sotto il Po. Oggi la formula viene declinata a livello nazionale, e quel segno di autonomia e autonomismo cerchiamo di diffonderlo anche nelle regioni del sud. Per esempio, il federalismo fiscale allora era visto come una iattura; ma già dal 2008-2011 abbiamo visto che la sola Basilicata, con l’acquisizione delle royalty sull’estrazione del gas, è diventata il Texas del Sud. Questo a dire che anche il sud potrebbe trarre dei vantaggi dall’autonomia e dal federalismo».
Lei è partito con una Lega che puntava a un’Europa delle regioni. Oggi è un partito cosiddetto sovranista. Si tratta di una naturale evoluzione o qualcosa si è snaturato?
«Il termine sovranista non mi entusiasma. Se sovranismo vuol dire difendere gli interessi dell’Italia e degli italiani a casa propria o a livello europeo, allora questo corrisponde alla mia idea. E poi è un termine vecchio, e mi sa di retorica».
Uno dei problemi irrisolti: la Lombardia somma un residuo fiscale di 54 miliardi annui, dei quali Roma ne restituisce solo 18. Maroni voleva portarli almeno 25. Lei a quanto punterebbe?
«Io punto ad avere quelle materie che la Costituzione, articolo 116 comma 3, consente che siano trasferite o dalla materia concorrente o da quelle esclusive dello Stato alle Regioni; accanto al trasferimento di quelle materie e competenze vi dovrà essere l’equivalente di trasferimento in risorse. Io sono stato per un anno presidente della commissione paritetica dei sei col compito di dettare le norme attuative della Provincia autonoma di Bolzano. Quindi, quasi tutte le materie dello Stato se le portano a casa e ne risulta un minimo di residuo fiscale. Ho visto personalmente quante risorse ci sono sul territorio e quanto bene le spendono. Una realtà come la Lombardia che ha 10 milioni di abitanti, potrebbe ragionevolmente chiedere tutte e 23 le materie, come ha fatto Zaia in Veneto, e dimostrare come risorse male utilizzate dallo Stato possono essere meglio spese dalle Regioni, dai Comuni e dalle Province. Fatto questo poi si discute del residuo fiscale. Ma buona parte già resterebbe a casa nostra».
La Lega in vari momenti ha plaudito a personalità “estreme” o a movimenti “estremisti” (da Ocalan agli indipendentisti baschi). Oggi guarda con simpatia a Orban. Qual è il filo conduttore?
«Sono momenti diversi. Da una parte, rispetto agli indipendentisti, ci riferiamo al momento secessionista della Lega. Dall’altra, si parla di votare contro una mozione che condanna l’Ungheria e Orban, il quale è stato eletto quattro volte democraticamente, senza dimenticare peraltro che Orban era iscritto al Ppe. Finché era coi socialisti e col Partito popolare andava bene. Adesso che ne è uscito, tutti si accorgono che non va più bene. Io sarei molto cauto rispetto a questi paesi, come Ungheria e Polonia, paesi cuscinetto verso la Russia, ad andare a creare dei problemi a casa loro. Potremmo averne anche bisogno».
Lei era d’accordo per il governo di larghe intese Draghi? E che pensa di Draghi?
«Era necessario. Nel momento in cui era caduto il paese dopo due anni di covid, la crisi economica conseguente e l’innesco della mina energetica, sommata alla ripartenza della inflazione che ormai veleggia in maniera totale, quegli interventi di emergenza e messa a terra del Pnrr erano assolutamente necessari. Quel treno passava una volta sola, e senza Draghi, con Conte in giro, l’avrei vista molto dura. È stato molto difficile però da far digerire ai nostri elettori, e tanti non lo hanno affatto digerito: le larghe intese ti privano della tua identità. Un rapido recupero di quell’identità, deve partire dal federalismo e dall’autonomia, oltre che da immediate risposte da dare sui problemi concreti come quello dell’energia. Questa mattina ​ho fatto un giro in una serie di imprese di vario tipo, ed è un grido di allarme totale e finale legato a questi costi e a quello delle materie prime. La nostra richiesta per 30 miliardi, di cui 15 in deficit e 15 già presenti come extra-gettito dello Stato, consente di superare questo periodo in cui ci sarà anche l’insediamento del parlamento a metà ottobre, e nella seconda metà la nascita del nuovo governo; diversamente, al posto di 30 miliardi, si andranno a spendere 100 miliardi, perché le aziende non sono in grado di sostenere quei costi. E quando chiude un’azienda, si sa, quella non non riparte schiacciando un bottone; a ruota ne vanno tanti posti di lavoro e tante famiglie saltano in aria».
Se dovessero proporle un ministero, in caso di vittoria, quale vorrebbe?
«Ho fatto il ministro tre volte e francamente non sono tentato di farlo una quarta. Quattro volte invece sono stato vice presidente del Senato e due volte ho scritto il regolamento del Senato stesso. È questo il mestiere che mi riesce meglio: quello di gestire un soggetto istituzionale che rischia di essere una bomba a orologeria (mai c’è stato un Senato con 200 senatori). Il mio sogno potrebbe essere la presidenza del Senato, anche perché saprei gestirli».
Toccò a lei varare la riforma elettorale che lei stesso definì “porcata”. Oggi cosa proporrebbe?
«L’avevo chiamata “porcata” per via di tutte le cose che varî soggetti (da Berlusconi a Fini a Casini e Ciampi) mi avevano fatto aggiungere. Il mio modello era una fotocopia del sistema elettorale regionale, che mi pare il più funzionale e dà garanzia di governabilità e stabilità di governo. L’unica differenza è che nel regionale c’è l’elezione diretta del presidente, e a livello nazionale è impossibile per ragioni costituzionali, demandandone la nomina al capo dello Stato. Ma penso che questo sarà il modello perseguito».