Estate calda in campagna nelle ore della “gabanela”

MANTOVA Pomeriggi caldi e afosi d’estate. Verso un Ferragosto in cerca di vacanza o qualche ora di svago. A Mantova sotto i portici un po’ di ombra potrebbe anche comportare una leggera temporanea frescura. Ma pensate in campagna, nella Bassa, sotto il sole tra fossi secchi e lontani casolari, che caldo si può incontrare?! Come quello descritto da Giovannino Guareschi, nell’episodio di don Camillo il quale in una giornata di caldo insopportabile decide di farsi un bagno nel Po e poi gli rubano i vestiti. Ecco, quel caldo lì,  con il “sole che batte in testa”,  è un po’ il ricordo ricorrente di questi pomeriggi, ricordo che non va a riparare nella spiaggia del mare o su un sentiero di montagna, ma direttamente sull’aia di una corte di campagna, che in quei giorni di piena estate sembrava la “gradela d’an furan”, la base di un forno, il piano di una stufa. Dunque, qui bisogna stare attenti subito alla parola, agli accenti, ai suoni e ai significati tradizionali ed integrativi: la gabanèla. Una specie di riposino nel dialetto mantovano della Bassa, la Bassa mantovana, quella che ho vissuto da bambino e ragazzino a cavallo, perché si dice a cavallo anche quando è un po’ giù di groppa, tra gli anni Sessanta e Settanta. Mica poco, mica facile. Italianizzando a spanne: la gabanella, il ripos(ino) del pomeriggio. Attenzione: era più un riposo sostanzioso di un classico riposino, una roba tipo la pennichella romana, la dormitina o al pònsìn altrove. Era ed è un vero e proprio intervallo di sonno e relax che nelle case di campagna vedeva e vede coinvolti tutti, uomini e donne, bambini e ragazzini. Io mi annoiavo e andavo in stalla a parlare con le mucche o in giro par li purtghini a cercare dialogo con faraone e tacchini. Mondo fantastico. Loro, a volte, mi rispondevano, credo, con versi tutti loro -ovvio- e anche con occhi o con le code. Le mucche in stalla facevano anche loro la loro gabanèla, sdraiate placide a terra chi ruminando e chi solo respirando e sembravano davvero infastidite da un ragazzino impudente che andava lì a passare il tempo leggendo ad alta voce i nomi delle medesime signore del latte e a cercare di accarezzare i vitellini là in fondo verso l’orto che sapevano di latte da mammella appena munto.

Faceva caldo, ma forse non come ora. O forse sì. Non si sa mai classificare con originalità il caldo percepito come temperatura: stiamo a dannarci a trovare primati di gradi centigradi per zone e per orari quando i primati sono già accaduti, fatto salvo per i primati da cambiamento climatico ché quelli devono, dovrebbero, dovranno farci preoccupare sempre di più. Nella stalla volavano uccelli e mosche.

C’erano finestroni e finestrelle aperte: i finestroni fatti per dare foraggio erba e fieno direttamente dai due portici e le finestrelle ad arco in alto con ringhierina fatte con la stalla ai tempi, zona Ottocento forse, primi Novecento, bah sembrava lì dai Gonzaga quella stalla dei nonni, e forse anche le mucche. Il tempo di un ragazzino di dieci anni è si per sé un tempo senza tempo un po’ illimitato e un po’ sognato. Sua quelle sedute sdraiate sia quelle in piedi ogni tanto si davano delle codate sul dorso e sulle cosce per far scappare le mosche e forse pure gli uccellini. Bianche e nere un monumento della natura. Nel silenzio della gabbanella, del riposone campagnolo pomeridiano, si sentivano solo loro che si alzavano facendo dondolare le catene perché all’epoca quelle mucche da latte erano legate non come adesso libere di muoversi e andare dentro e fuori. Però sembravano accettare la condizione di legatura. Invece le manze erano nella stalla moderna all’aperto tutte libere. Ogni tanto le liberavano le mucche grosse per la processione all’albi la grande vasca di marmo sotto la pompa del portico grande per l’operazione di beveraggio. Ma anche il rumore della stropazzata della coda sulla schiena e sulla coscia rompeva il silenzio della gabanela. E poi arrivava qualche muggito che se cominciava una allora seguivano anche altre due o tre, per non parlare dei vitellini in fondo che quando sentivano due o tre vacche muggire allora anche loro si sarebbero lamentati emettendo gemiti da piccoli bovincelli.

La gabanela in campagna cominciava alle tre del pomeriggio e finiva attorno alle quattro e mezzo. D’altra parte, quelle erano le ore più calde e se non c’era scadenze speciali di campagna come mietitura, trebbiatura, raccolta di frutti e affini, erano gli orari del silenzio e del deserto. In casa nella grande casa come fuori, in corte. Quasi tutti nonni, zii, cugine facevano la gabbanella a letto, qualche volta zio o nonna la facevano sul divano della camera della televisione, l’unico divano di casa. Io mi annoiavo come detto ma tanto prima o poi ci avrebbero pensato galline e faraone, tacchini e papere a starnazzare e a richiamare qualche presenza umana. A parte che pure oche e galline, faraone e tacchini secondo me sapevano che c’era la gabanela perché sembravano più quieti pure loro, più silenziosi, più lenti. C’era tuttavia un gallo, fiero e impettito, che scambiava il pomeriggio per l’alba e ogni tanto cantava come fosse l’aurora, come se sorgesse il sole. Mah.

E poi c’era un pavone, come quello dei dipinti dei Gonzaga, di cui nonna Clotilde era orgogliosissima, che ce l’aveva con me e mi sembrava sempre pronto ad attaccare soprattutto quando giravo per corte da solo. Mica facile la vita della corte agricola per un bambino curioso. In certi pomeriggi di gabanela conclamata andavo a trovare in conigli, zona pollaio ma dalla parte dell’aia. Mi facevano tenerezza e nello stesso mi davano sicurezza: stavano nelle gabbie, quindi non potevano rincorrermi, facevano i musetti, si muovevano a scatto ogni tanto sbucava qualcuno dal fondo, di nuovo. Quando avevo finito la rassegna degli animali di piccola taglia da cortile, ma piccola taglia è un concetto relativo perché per un bambino gracile di otto anni anche un tacchino ben messo po’ essere di taglia allarmante soprattutto quando fa la ruota e ti viene contro; dunque, dicevo quando mi ero stancato di girare per il cortile a vedere becchi e creste, pennuti e qui quo qua, andavo verso il regno di sua maestà il maiale. Embè, mica poco. I tempi di una gabanela e il sogno è servito.