La bella nostalgia suzzarese in quel “treno” di Vanni Buttasi

MANTOVA Scorrono sullo schermo della memoria in un film tutto personale. Sono le persone e i personaggi che hai incontrato in varie fasi della vita o che hanno attraversato la tua vita per pochi attimi ma che hanno segnato pezzi della vita stessa. Persone, colleghe e colleghe a scuola e nei primi posti di lavoro, vicini di scrivania o di bus, frequentatori di bar o di mercato, interlocutori di lavoro e di affari che ritieni al momento un fatto casuale o del tutto accidentale e poi scopri che erano proprio quella vita là. Mica poco. Mi ricordava Piero Marcolini, indimenticato giornalista e scrittore da Verona che fece un periodo di lavoro in redazione a Mantova, ai tempi di Eramo Giancarlo e Diego, e Umberto Bonafini, che c’è un mondo pieno di “prossimi”, non solo nel senso evangelico, “il prossimo tuo”, ma nel più generale senso umano del termine.

L’altro giorno alla presentazione del bel libro di Vanni Buttasi, “Quel treno per Carpi”, Il Rio Editore, con gli amici e colleghi di una vita Adalberto Scemma, storico giornalista mantovano con esperienze a largo spettro da Verona al mondo, e Werther Gorni, lunga frequentazione dagli anni Settanta e ora direttore della Nuova Cronaca di Mantova, ci siamo sentiti un po’ i “seniores” del giornalismo della zona. Ci sta. Uno in sala Politeama, ha anche detto: sei il Cuccia del giornalismo mantovano. “Sei un po’ il Cuccia” … mi stavo preoccupando. Bisognerebbe spiegare a tutti chi era Enrico Cuccia per l’economia e la finanza dell’Italia negli anni ruggenti. Ma non saprei come cavarmela in tre righe. Ma mi piace il paragone, almeno figurativo, perché ultimamente io cammino un po’ come Enrico Cuccia: mani dietro la schiera, un po’ ingobbito, e testa reclinata in avanti e in giù per guardare per terra e non ad altezza mondo. A volte ne vale la pena.

Con queste premesse, forse un po’ lunghe, ma come diceva don Dualco Giuliani, indimenticato prete alla don Camillo dei miei anni giovanili, “non è l’omelia del prete che è lunga, è la pazienza dei fedeli che è corta”, ecco -dicevamo- con queste premesse arrivo al dunque: considerare importante la bella nostalgia. La nostalgia buona, non quella canaglia. Come quella che ci trasmette il già citato collega Vanni Buttasi, un “prossimo” storico degli anni di impegno giornalistico e culturale, nel suo ultimo libro. “Quel treno per Carpi” di Vanni Buttasi pubblicazione accorta ed efficace de Il Rio Edizioni , casa di cultura e non solo editrice di Giulio Girondi e Giada Scandola, è un bel libro non solo perché è fatto bene ed è scritto con quella sapiente leggerezza che lo fa leggere quasi tutto d’un fiato, ma anche perché, parlando di Suzzara Calcio e di calciatori degli Anni Settanta, parla in realtà di una società e di una città che sono nella memoria collettiva e selettiva di noi tutti che eravamo ragazzi e giovincelli in quegli anni belli. Scappa la rima.

Ecco perché, chiamato a parlare da Vanni alla presentazione, immortalato dagli scatti pronti e lesti di Bruno Melli, editore Eco di Suzzara, ho detto, e confermo qui, che è un libro di bella nostalgia, come peraltro accennato dagli stessi presentatori il maestro Adalberto Scemma e il bravissimo e competentissimo collega Werther Gorni, direttore della Cronaca di Mantova.

Nostalgia bella non nostalgia canaglia, nostalgia lirica quella che fa ricordare e commuovere non quella patologica che porta alla depressione o allo stato di ansia permanente del facile ed inutile ” ah com’erano belli quei tempi che adesso non ci sono più”.

Noo, non quella nostalgia, ma questa nostalgia positiva: la consapevolezza di aver vissuto anni pieni, avventure splendide e complicate, esperienze condivise, aver lasciato ricordi intensi. Ricordi uguale portare al cuore. Questa è la nostalgia che ci piace e questa è la nostalgia bella e leggiadra che lo scrittore giornalista Vanni Buttasi da Suzzara ci fa vivere nelle sue righe. Grazie Vanni.

Ricordo con gratitudine i tanti prossimi che ho incontrato, quelli semplici e quelli difficili da frequentare, quelli che mi hanno aiutato e quelli che mi hanno ostacolato, e quelli che mi hanno rifiutato. “Non si può piacere a tutti”, diceva mia bisnonna Margherita, anno di nascita 1885, che di prossimi difficili tra fine ‘800 e primi del ‘’900 ne ha incontrati parecchi. No, no, non si può piacere a tutti. Un allenatore di calcio non mi ritenne adatto per fare due partite, da piccolo. Mi sono rassegnato. Anche in porta non ero il massimo. Sono piaciuto invece ad Agostino Mantovani, dirigente della Confagricoltura bresciana e lombarda, che ancora studente universitario, mi offrì una collaborazione giornalistica nel settore agricolo e zootecnico. Imparai tante cose e anche a viaggiare tra Milano e Brescia, tra il Brennero e Roma. Scrivevo per Terra e Vita e per l’Informatore zootecnico e veterinario e molti lettori pensavano che fossi del ramo. Eh sti giornalisti! Poi l’incontro clou con Rino Bulbarelli che mi ha cambiato la vita quando mi disse: siediti lì. E cominciai sul serio il mestiere. Mica tanti colloqui e prove attitudinali, mica tante schede da compilare e test a crocette da realizzare: un marciapiede, due testimoni casuali verso il bar, un raggio di sole e una battuta. “Proa, sa ta stè a gala ben, sat v’è a fond at vè a ca!. “Prova! Se stai a galla ben, se vai a fondo, vai a casa”. “Mia tanti bali”. Affare fatto.

Fatto sta che è bello e confortante pensare e ricordare i prossimi che sono stati pezzi della tua vita, a tua insaputa. Come Orazio Fogato, straordinario direttore dell’Unione agricoltori di Mantova che aveva sempre una notizia o un problema da segnalarti del mondo agricolo mantovano che diventava titolo sul giornale. Così come gli omologhi di Coldiretti Giancarlo Siena e Bruno Giubertoni e quelli di Confcoltivatori ora Cia Mauro Pezzali e Sergio Minelli. In ambito agricolo e zootecnico mi divertivo un sacco. E quando avevo mezz’ora cercavo Arrigo Caleffi, il dottor Caleffi, e mi facevo spiegare cose scientifiche su mais, latte, bietole e via di paginate. È stato molto prossimo anche don Dualco Giuliani, parroco di Villa Saviola, che mi portò al primo Giubileo della mia vita e avevo 14 anni. Fare le scale sante e girare per le basiliche giubilari insieme alle nonne del paese era un’avventura. E dopo don Dualco un po’ don Camillo, i più che prossimi Lino Boselli, Egidio Faglioni, Ettore Scarduelli, Egidio Caporello, Paolo Gibelli. Altro fronte, il turismo. Graziano Bigi guidava il pullman e mi affascinava quel mestiere di navigatore delle fantasie dei viaggiatori. Nelle gite mi sedevo sullo strapuntino vicino all’autista e provavo a fare la guida naturalistica. Prossimissimi, se così posso dire sono stati Carlo Accorsi, Carlo Grazioli, Beppe Momoli, Italo Uggeri, Elio Sparano e Antonio Velluto che mi hanno aiutato nella transizione da giornale a radio tv. Mica facile, mica scontata. Ricordo che nel primo servizio per il giornale radio avevo fatto un testo lunghissimo, adatto per la stampa ma non per la durata della trasmissione radiofonica e l’allora caposervizio del Gazzettino Padano Giornale Radio della Lombardia Antonio Velluto mi telefonò e mi disse: “Ah Fabrì, ma che mi hai fatto. I promessi sposi?!” L’alternativa del rimprovero sulla lunghezza era il ricorso al titolo Ben Hur che dura tre ore e mezza. Una colonna di giornale era un intero telegiornale per la nuova dimensione radio televisiva. Una rivoluzione. Tanti altri prossimi, ma è finito lo spazio. E pure il tempo.