Giovanni Vernia, come si batte la crisi della festa

MANTOVA Elargitore di risate quotidiane. È Giovanni Vernia, attore, conduttore radiofonico e televisivo, comico di professione. Sabato è protagonista al Teatro Sociale (ore 21) con il suo spettacolo “Capa Fresca”, con la regia di Giampiero Solari e Paola Galassi, prodotto da VentiDieci e Top Agency, in tournée dall’inizio dell’anno.
Giovanni, perché “Capa Fresca”, un detto napoletano, per lo spettacolo di genovese?
“Capa Fresca è una persona che non riesce mai a essere seria, nemmeno quando la situazione lo imporrebbe. È un nomignolo che mi ha affibbiato mio padre quando ero piccolo. Lui ha origini pugliesi, di Gioia del Colle, il paese delle mozzarelle, dove Sylvester Stallone ha avuto la cittadinanza onoraria. Sto puntando ad averla anch’io con questo spettacolo. L’idea nasce da un’ossessione per la schiavitù che stiamo vivendo, in un’epoca in cui ci sentiamo liberi con gli smartphone in mano attraverso cui possiamo vedere tutto quello che vogliamo, essere informati, commentare situazioni e video, accedere all’intelligenza artificiale. In realtà più che una libertà, si tratta di una schiavitù. Prendi esempio da me. Quando viaggio in treno invece di leggere un libro e arricchirmi, passo le ore a leggere notizie che imbruttiscono e mi brucio i neuroni. È un bisogno fisico: prendiamo il cellulare in mano anche senza avere la necessità di farlo. È come una droga. Così cadiamo nella frustrazione, ci confrontiamo con ideali di successo e di ricchezza che non potremmo mai raggiungere, diventiamo tristi e ci sfoghiamo con la polemica. Il vero antidoto qual è? La capa fresca”.
Come declini il tuo standard di divertimento tra tv, radio e teatro?
“Il fattore sempre presente è proprio quello di divertirmi. Il pubblico mi viene dietro in questo. Ovviamente è un modo diverso ogni volta. In radio lavori sull’improvvisazione, sull’ironia del momento e su atmosfere che la gente deve immaginare con una voce o un jingle. Per questo non mi piacciono le radio che finiscono tutte in televisione, si uccide il senso di fantasia. Faccio un personaggio, una parodia e ognuno se lo deve immaginare a modo suo. In teatro invece c’è un rapporto diretto con il pubblico, lo spettacolo si scrive, si prova, cambia da data a data, anche in base alla città. Per questo arrivo sempre qualche giorno prima dello spettacolo per conoscere i luoghi e le persone. Il mio territorio preferito è avere a che fare con il pubblico e farlo divertire live. In questo spettacolo questo avviene all’ennesima potenza. Ci sono momenti in cui è il pubblico a decidere cosa devo fare attraverso dei qr code”.
Un consiglio ai giovani per diventare capa fresca?
“Jonny Groove, il personaggio che interpretavo a Zelig, celebrava l’allegria e la spensieratezza. Erano 14 anni fa ed era molto autobiografico, io ero quel discotecaro incallito. Adesso i ragazzi sono meno festaioli, anche la musica dance è entrata in crisi, le discoteche stanno chiudendo. Viviamo la crisi della festa. La musica ha preso una piega più introversa, triste come la trap. Voto per un ritorno alla dance e alle feste dance. A rischio di sembrare un mega boomer dico: vivete la vita reale, i social ci stanno facendo implodere. Prendi l’abbordaggio sulla spiaggia. Non esiste più, adesso avviene su Instagram anche se sei in spiaggia. C’è l’ansia della sconfitta, bisogna nascere tutti con il n. 10 sulle spalle. Invece bisogna saper cadere e ridere della caduta”.