Applausi trionfali per il Don Carlo

foto cravedi

PIACENZA Tutto inizia e tutto finisce lì, nella desolazione notturna del chiostro del Convento di San Giusto, tra flebili fiammelle in processione, scranni di un teatro deserto o di un tribunale svuotato, all’ombra della statua del sommo imperatore Carlo, a sua volta inginocchiato in preghiera. Lui prostrato davanti a un Dio venerando e terribile, gli uomini prostrati davanti a lui. Tutti oppressi da una forza superiore, tutti condannati, vinti. Niente di nuovo sotto il sole. È la soluzione della versione in quattro atti di Don Carlo, la cosiddetta “milanese” del 1867, ma è anche l’acuta regia di Joseph Franconi-Lee, attinta a piene mani da Luchino Visconti e baciata dal binomio costituito da Claudio Schmidt e Alessandro Ciammarughi, rispettivamente alle luci e a scene e costumi. Dopo aver toccato i teatri di Modena, Piacenza e Reggio Emilia, l’opera ora si dirige verso Rimini, dov’è attesa il prossimo fine settimana. Chi può vada. E non solo per ascoltare l’incanto ogni volta intatto di una delle partiture più sublimi del catalogo verdiano – come non sentire l’alito del Requiem volteggiare in mille pieghe di una scrittura che scava nei coni d’ombra del cuore come mai prima aveva osato? -, ma anche per godere, pagina per pagina, nelle oltre quattro ore di musica, dello spettacolo raro di un cast di prim’ordine. Una gara di bravura a cui, in buca, alla testa di una duttile Orchestra Toscanini, la conduzione di Jordi Benàcer imprime lucidità e nitore, in un passo palpitante e asciutto, sobrio e incalzante anche nei momenti di maggiore solennità ma capace anche di anse di puro, speculativo abbandono. A Piacenza, lo scorso 12 novembre, sul palco, su tutti, svettava la maschera di traboccante umanità di Michele Pertusi: un Filippo II grandioso in quanto sconfitto, spogliato di ogni finzione, intimamente straziato anche quando impone e dispone. Ancora virile ma indurito dall’esercizio del potere, onesto nell’amara constatazione del deserto che lo circonda, del sepolcro che lui stesso ha contribuito a scavarsi attorno. L’amore di Elisabetta è l’unico territorio mai espugnato. E il soliloquio che squaderna là, nelle remote stanze dell’Escorial, creatura vulnerabile, nuda di fronte allo specchio del proprio io, è una voce sola con il recitativo del violoncello di Pietro Nappi, impastata di vita e di inarrivabile malinconia. Un momento ancor più soggiogante, in questa stagione che alla matura vocalità del basso parmigiano qualcosa toglie e molto aggiunge in efficacia ed espressività. Un fiume di sovrana eleganza, nel legato, nella sobria intensità del colore cercato su ogni accento, ogni parola, ancor più evidente nel confronto con la cieca, lapidaria irruenza del Grande Inquisitore, ben delineato da Ramaz Chikviladze, in quel duello che vede parlarsi due pianeti solitari, astri freddi destinati a non incontrarsi mai. D’altronde, è proprio l’incomunicabilità la cifra del dramma, il vuoto immobile in cui tutto galleggia, soffocando qualsiasi refolo di cambiamento. La passione tra Carlo – che nella recita piacentina trovava, a scolpirne i tratti acerbi e appassionati, ma anche l’irrisolta adultità, un valoroso, musicalissimo Paolo Lardizzone, giunto in corsa a sostituire l’indisposto Piero Pretti) ed Elisabetta – con Anna Pirozzi statuaria e millimetrica, nella sua vocalità di diamante, al debutto nel ruolo – , è il frutto inaccettabile di un ordine che non ammette eresie, esattamente come il popolo di Fiandra è destinato ad essere sacrificato sull’altare della ragion di Stato. Soccombe il limpido Rodrigo di uno statuario Ernesto Petti, che nell’aria “Io morrò”, scolpita con sorvegliata misura, sembrava dire, con il suo passo araldico e incorruttibile, che l’ora estrema lo coglie vivo, franco esattamente come lo era stato in ogni suo giorno. Niente di più lontano dai tormenti del fraterno amico per il quale, generosamente, si immola. Allo stesso modo, destinato a frantumarsi è il mondo della vendicativa (e triste) Eboli, che una Teresa Romano in stato di grazia rifiniva con magnifico sbalzo e con quell’audacia tutta vampate ed estro propria della principessa. Un affresco di grondante bellezza a cui il fasto dei costumi – il broccato della chiesa, i velluti della corona, ma anche il bianco latteo di mussole e lini, di pizzi e di trine, delle vesti e lenzuola delle monache, intente al tombolo così come alla lettura – conferiva il suggello della perfetta compiutezza. Applausi trionfali a tutto il cast.

Elide Bergamaschi