Quella magica triade: zucca, riso e maiale

MANTOVA La cucina mantovana esiste ma ha una tradizione recente. È la teoria espressa da Alberto Grandi, professore all’Università di Parma – Dipartimento di Scienze economiche e aziendali, nel corso della conferenza “Esiste una cucina mantovana?” che si è tenuta nell’Atrio degli Arcieri di Palazzo Ducale.
“In Italia, fino agli anni Cinquanta, si mangiava poco e male, le cose cambiano con il boom economico”, ha spiegato Grandi, “l’identità della cucina mantovana, in particolare, si costruisce tra il 1961 e il 1963, con una vocazione turistica fin troppo gonzagocentrica”. C’è un evento spartiacque: la mostra del Mantegna del ’61. “L’esposizione ha avuto un inizio stentato”, ha proseguito Grandi, “per questo si è pensato di organizzare un pranzo in stile medievale, invitando gli influencer dell’epoca. L’organizzazione è di Angelo Berti mentre il cuoco è veronese, Giorgio Gioco. Per l’occasione si inventano ben 35 portate, tra cui il consommé Isabella d’Este. Tutte quelle ricette scompaiono il giorno dopo, rimangono solo il cappone alla Stefani e la pappa di Mantova. L’obiettivo però è raggiunto: viene superata la sudditanza francese puntando sulla storia”. Quello mantovano è un modello che ha fatto scuola: una tradizione si inventa quando l’identità di una società inizia a vacillare e attraverso il marketing la storia si vende facilmente. “Rimane comunque un primato della città rispetto al territorio perché la gastronomia è un fatto urbano”, ha concluso Grandi, “oggi la cucina mantovana ha una grande reputazione e una sua identità grazie alla magica triade zucca, riso e maiale”.