MANTOVA La sfortuna di chiamarsi Lekbir è costata un processo a un 40enne marocchino, che ci ha messo sei anni per uscirne assolto. Risale infatti al luglio del 2016 l’episodio per il quale ieri la pubblica accusa ha chiesto un anno di reclusione nei confronti di Lekbir El Rahmany, 40enne marocchino di Castel d’Ario. Secondo quanto ricostruito durante le indagini, il 40enne aveva forzato un posto di controllo dei carabinieri a Castel d’Ario, ingaggiando un inseguimento a folle velocità in direzione di Mantova. Sorpassi al limite, semafori rossi bruciati e anche un paio di tentativi di speronamento dell’auto di servizio, per poi dileguarsi. Inn seguito alle indagini, però, il fuggitivo veniva identificato nel 40enne marocchino che nell’ottobre di quello stesso 2016 si vedeva recapitare, mentre era al lavoro in un’azienda di San Giovanni Lupatoto, un avviso di garanzia per il reato di resistenza a pubblico ufficiale. Il giorno dell’inseguimento i militari stavano facendo un appostamento perché sospettavano di spaccio di droga un marocchino residente nella zona di Castel d’Ario. Quando il loro uomo era salito in auto gli era stato intimato l’Alt, ma per tutta risposta quello si era dato alla fuga. Pare che il sospettato si chiamasse Lekbir come il 40enne e che avesse anche un cognome simile al suo. Ci sarebbe stato quindi uno scambio di persona del quale il marocchino sarebbe rimasto vittima. Questo fino a ieri quando il suo difensore, avvocato Emanuele Luppi del Foro di Verona, ha dimostrato la sua estraneità ai fatti contestati. Il giorno dell’inseguimento, infatti, il 40enne sarebbe stato altrove e l’alibi, trovando conferma gli ha infine evitato di subire una condanna penale a un anno di reclusione come chiedeva la pubblica accusa. Il giudice lo ha invece assolto per non avere commesso il fatto, anche perché la quasi omonimia non è un reato.