Il pianista russo Mikhail Pletnëv strabilia il Regio di Parma

PARMA A rimanere è la pregnanza, la condensazione, il corpo di quell’affresco sonoro che ogni volta Mikhail Pletnëv sa risvegliare dalla sua cordiera-mondo. Ma anche quel senso di chiaroveggenza che interroga la pagina in una tensione che è insieme attesa e resa. Un pianismo che, come direbbe Cioran, ha il frammento nel sangue e che porta l’ascoltatore lontano, altrove nel tempo, in mondi ormai sepolti sotto le roboanti mitragliate dei tanti esecutori-funamboli di cui oggi la scena è zeppa. Ecco, se, spesso, oggi il pianoforte è bombastica perfezione di muscoli esibiti al millimetro, lui è evocazione, sottrazione, anelito. La musica sbirciata da un retropalco, il mistero che si svela senza mai confessarsi apertamente, il filo della frase pronto a farsi imprendibile, selvatico arabesco che irretisce. Lo scorso 18 marzo, la Stagione concertistica di Parma al Teatro Regio ha avuto nel recital del pianista russo il suo momento apicale. Sul leggio, lo sguardo incrociato di Chopin e Skrjabin, attraverso la comune lente del Preludio. “Rovine, penne d’aquila”, i ventiquattro dell’op.28, nell’infallibile ritratto di uno strabiliato Schumann, pianeti in cui è il cosmico ordine delle attrazioni tonali a rammendare un’enciclopedica galleria di folgoranti comparse dove il grandioso, il sublime, il tragico, l’elegiaco e l’aforistico convivono e dialogano intimamente come tasselli di un fitto mosaico. Sagome più omogenee e sfuggenti i ventiquattro dell’op.11, fluide nelle geometrie, liquide nella consistenza della materia sonora, esplicitamente debitrice, soprattutto nei primi numeri, della lezione chopiniana, poi via via sempre più libera nello sfaldarsi delle armonie, nel gioco sempre più pulviscolare, sempre più astratto, delle rifrazioni. Ventiquattro più ventiquattro, i mondi che Pletnëv, con quell’aura insieme semplice e sacerdotale, intimamente colloquiale seppur rivolta ad un soliloquio meditativo, ha snocciolato a ritroso, in uno sguardo retrospettivo che da un inarrivabile Skrjabin, catturato in tutta la sua immaginifica portata, nel sortilegio infinito di mezze tinte, giungevano all’approdo chopiniano, a quelle gemme di assoluta quadratura, di incantata compiutezza. Le mani dentro al cuore del tasto, in un legato assoluto, metafisico, come solo lui oggi sa fare, risvegliato là dove il martelletto non percuote la corda; fraseggi mobilissimi, mercuriali, a seguire gli arabeschi di linee introverse, ripiegate in uno sguardo reticente anche quando la scrittura deflagra in vampate di abbacinante strumentalità. A incantare, una volta di più, è il rigore scientifico, il partecipato distacco, l’impietosa ostinazione con cui il pianista sa osservare e catturare l’anima del mondo, il trascorrere del tempo sulle cose, il passaggio dalla luce all’ombra sugli oggetti. La sua inspiegabile stupefazione, la sua laconica, intraducibile disillusione capace di travasare l’amarezza in poesia. Ventiquattro facce di un prisma assoluto, quelle di Skrjabin, inanellate con un’intensità di sguardo che non lascia scampo; uno dentro l’altro, fino a trovarsi nel profondo del gorgo di questa musica che già, dell’autore, preannuncia mille cose. E, in questo inesorabile procedere, l’ombra chopiniana svaniva di consistenza e si faceva stella lontana, fluttuante in un ideale campionario di valses tristes, pezzi caratteristici, romanze senza parole. Sagome, spettri, reminiscenze di un racconto perfetto, delibato in un clima di tensione quasi insostenibile. Di fronte alle olimpiche geometrie della chopiniana op.28, la stessa personalissima angolazione adottata per l’op.11 non raggiungeva le medesime altitudini e si arrestava alla dimensione, anch’essa colta da Schumann, di schizzo, di frammento, di sostanza ancora viva da forgiare. La rinuncia programmatica ad ogni estroversione, ad ogni cristallino guizzo, sin dal sorgivo Preludio in do maggiore, lasciava il posto alla penombra esitante di zone umide, scoscese, sospendendo in un tempo indeterminato, disorientante, quell’olimpico ritmo di proporzioni, ritorni, e intingendone la sostanza in un inchiostro scuro, scarnificato della proverbiale opulenza fino a farne un calco bruciato di voci interne, riemerse da chissà quale diluvio, richiami ad armonie segrete, esili cascate di note snudate della compiacenza del pedale di risonanza. La nuvola inafferrabile del settimo, l’esitante attesa dell’inquieto ottavo, l’accennato frullo d’ali del diciannovesimo. Chopin cantato all’indomani di un rogo, dopo un naufragio. Chopin visto da lontano: un mondo di pece a cui non bastava lo spolvero – condotto fino là, dove il suono flirta con il silenzio, con il bisbiglio, in una zona di frontiera che pochi possono permettersi di attraversare – dello Studio n°6 di Moszkowski, con cui, da tempo Pletnëv ama congedarsi, per levarsi di dosso quella pervasiva aura di ineluttabile fatalismo.