“Incontri Asolani”: ad Asolo, il pianoforte materico di Boris Petrushansky

ASOLO Pietra e cielo, cipressi e nuvole. Avvolta da una cinta di mura che, anziché mozzarne il respiro, sembrano abbracciarne il vivo fermento del centro tutto portici, bacari, scorci da cui ammirare i “cento orizzonti” che l’incantevole vista spalanca, Asolo è da sempre meta di artisti e viaggiatori a caccia di un’autenticità capace di riconciliare uomo e natura, ma anche storia e futuro. Da 45 anni, la Stagione Musicale “Incontri Asolani” incarna con perfetta mimesi lo spirito autentico della città: elegante, preziosa, appartata nella geografia quanto centrale nella risonanza del suo cartellone. Ne è prova il concerto che, da tradizione, il vincitore del Concorso Busoni è chiamato a tenere a qualche giorno dalla proclamazione del verdetto. Lo scorso 7 settembre è stata la volta di Arsenii Mun, il cui talento rapsodico ha sbancato l’ultima edizione del Premio, con verdetto unanime di giuria e di pubblico. E la sera dopo, nella cornice della chiesa romanica di S. Gottardo – alla cui nuda aristocrazia è impossibile assuefarsi – è stata la volta di Boris Petrushansky. Ultimo allievo della grandiosa scuola di Heinrich Neuhaus, una carriera internazionale da tempo sempre più curvata verso l’insegnamento, quello del pianista russo è un destino da decenni legato a doppio filo all’Italia, a partire dalla vittoria, nel 1975, al Concorso Casagrande di Terni che gli ha aperto le porte di un’intensa attività concertistica e didattica. In occasione del recital asolano, il pianista moscovita ha offerto un autentico viaggio nell’immaginario di una Russia primigenia, lontana dalle odierne brutture, immortalata in olii su tela o in frammenti della grande letteratura, idealizzata nella sua distesa di orizzonti sconfinati ma anche di spicciola, talvolta gretta quotidianità. Impossibile, in questa direzione, non culminare nel Musorgskij dei Quadri di un’Esposizione, nelle sue dieci tessere fatte di scene in fermoimmagine, lampi della memoria, visioni fugaci rammendate dalla cangiante sagoma di una Promenade chiamata a fare da ponte ma, ancor prima, da cassa di risonanza e sismografo di meditazioni sulla vita, sulla morte, sull’umanità. Nessuna pagina raggiunge con altrettanta forza evocativa un così crudo, ruvido, toccante realismo. Nei suoi contorni smarginati, nella sua scrittura scapricciata e tracimante, quasi dettata da un’incontenibile ondata di impulsi creativi, ascolto, dopo ascolto, il polittico dei Quadri continua a restituire, attraverso una rutilante carrellata di figure e situazioni dell’umana commedia, il ritratto di un gigante tanto incompreso nella sua breve parabola terrena quanto ancora solo parzialmente esplorato a posteriori. Nel recital asolano, ad una lettura più nitida e trionfalistica, Petrushansky è sembrato prediligere un approccio teso a stanare dalla pagina, già nell’iniziale Promenade, sghemba, claudicante, piena di sussulti e di dramma, l’aspetto di un ruvido realismo, il gusto per la caricatura, il segno marcato del grottesco. Non oleografie, dunque, ma visioni di sventurata, terrifica grandezza, rese con una visceralità che in più momenti patteggiava il nitore esecutivo e la piena linearità sintattica con una più ambiziosa, in un certo senso utopistica, idea di verità. In questo mondo disegnato con penna a trama grossa, più materico che lirico, ripercorso in un allucinato, febbrile flashback, più di un dettaglio finiva per essere esasperato o, addirittura, adulterato, come fa la mente quando ossessivamente ripercorre un ricordo. Così, il vecchio castello era il miraggio di un ammasso di rovine viste da lontano, solo accennate nella loro onirica fissità; l’inesorabile, strascicata forza motrice di Bydlo si faceva ostinato, immane sforzo ad avanzare, continuamente rotto da sussulti che minacciavano lo sfacelo e comprimevano la tridimensionalità della scena. E ancora, se il drammatico confronto tra i due ebrei perdeva di consistenza nelle sue polarità e pareva far invece emergere – nei colori, ravvicinati, così come nella pronuncia – la sostanziale fratellanza dei due, la grande porta di Kiev che chiude l’affresco sopraggiungeva non grandiosa nell’aureo profilo di sentinella posta a custodia della antica città ma, al contrario, timida, pronunciata a fior di labbra, spogliata di quella stupefazione che solo negli accordi finali, nel liberarsi delle sue campane, avrebbe trovato il sinfonismo del suo tratto. A ritroso, nel solco dell’ésprit russe, il concerto si era aperto nel segno di Rachmaninov, con un dittico di Preludi associati a due Etudes Tableaux, pescati rispettivamente dalla raccolta op.33 e op.39, suggestivo quanto immaginifico preliminare alla monumentale Sonata n°2 op.36. Applausi generosi, ricambiati con tre bis.

 

Elide Bergamaschi