MUENCHEN Di polvere e di sogni. Di questo siamo fatti. La guerra, il potere, la fama, la gloria sono solo stanche sirene, incapaci di irretire col loro canto per più di qualche breve stagione. Poi, tutto passa, tutto scorre in un processo di distruzione e di creazione eterno, crudele, imperturbabile, come crudele e imperturbabile è l’eterno gioco del mondo. In questo ingranaggio, l’uomo da sempre tenta di sottrarsi ai disegni del Fato e osa cambiarne il disegno. È la sua natura, è il suo modo per dirsi vivo. Ma, vista dall’esterno, la Natura, quella sovrana, è ben altro. Al Bayerische Staatsoper di Monaco di Baviera – gran teatro di tradizione in cui la musica è consuetudine che riempie puntualmente la sala con un pubblico trasversale a età e a censo – la lezione di Damiano Michieletto nell’Aida che lo scorso 30 luglio ha abbassato il sipario, in assoluta adesione con la buca magnificamente guidata da Daniele Rustioni, era una meditazione sul senso profondo delle umane sorti, nello sguardo che sottraeva Verdi ai tradizionali bozzettismi faraoneggianti tutti palme, arcani geroglifici, occhi bistrati e costumi sgargianti per proiettarlo oltre lo spazio, oltre la storia: là dove l’uomo offende l’uomo nel suo seme più innocente e, al tempo stesso, tra sgomento e sorpresa, scopre nel nemico non l’altro da sé ma il fratello. L’Egitto di Michieletto trasmigrava dunque dalle rive del Nilo ad una palestra sventrata da recenti bombardamenti (veniva in mente l’Ucraina, certo, ma potremmo spingerci ad Aleppo, Kabul e niente cambierebbe), nella sbigottita immobilità del giorno dopo, con la luce del mattino che ferisce, sfacciata, i segni dell’orrore recente e li tramuta in relitti. Qui, in spazi desolati, orfani di bambini e di gioco, come un fiore che contro ogni decenza si fa largo tra le pietre, la vita ricomincia. Nonostante tutto, nonostante noi, leopardianamente fedele al suo compito. Qui un’Aida in abiti dimessi si aggira, facendo quel che può. Dando coperte agli sfollati, accogliendo gli ultimi arrivati. Non schiava ma, piuttosto, badante, anonima dispensatrice di bene, stravolta di stanchezza, come raccontano le profonde occhiaie sul viso pallido. Nel suo cuore, la patria lontana a cui è stata strappata profuma di ricordi: la famiglia, l’infanzia incontaminata in cui si rivede bambina, i sogni. Ma, proprio come il fiore buca il cemento e vince, lo sguardo di Radames posato su di lei, di Radames il nemico, l’usurpatore, il malvagio, ne risveglia i sogni, e con essi l’appetito alla vita. In buca, alla testa di uno strumento di straordinaria duttilità e morbidezza, la bacchetta di Rustioni, in perfetto allineamento con la regia, lasciava affiorare dal damasco del Preludio verdiano il filo, sottile, di speranza che Michieletto insinuava tra le macerie. Archi come alito leggero, fiati vaporosi, ottoni e percussioni strepitosi a rendere una speranza ancor più incrollabile in quanto aggrappata al deserto in cui ha visto la luce. L’amore è l’unica forza in grado di scompigliare le carte e di riscrivere la storia; l’amore conduce fuori da sentieri già tracciati e consente di vedere in una schiava l’amata e l’amato nel proprio carceriere. Quando Radamès – un raffinato Riccardo Massi, a suo agio nel domare gli spigoli di un personaggio tra i più complessi e sfuggenti – canta il suo amore per Aida, all’inizio, conserva un po’ della sua spavalderia di padrone, ma mentre le parole gli si sciolgono in bocca il pensiero di quella ragazza sembra insinuargli il tarlo della fragilità, del dubbio, della contraddizione. Lui, l’eletto, il designato condottiero alla testa di un esercito chiamato a catturare i ribelli etiopi che minacciano i confini del suo regno, improvvisamente, intimamente vacilla, mentre attorno a lui le polveri del rancore stanno per prender fuoco. Bombardamenti sulla città, il corpo inerte di un bambino morto che una guardia esibisce, come miccia da accendere. Una bara bianca portata a spalle da uomini di fortuna, seguita dal muto strazio di una madre senza più lacrime da versare. E se il pianto asciutto è roba per donne, la vendetta è cibo e oppio per soli uomini. Al passaggio del feretro, è ferino il grido che (dal magnifico coro del Teatro) si leva – strascicato, grossolano – al suono di “Guerra!”, invocata come santa provvidenza chiamata a lavare peccati e rancori. Ragazzi accecati dalla chimera della battaglia, dall’istinto vitale che si fa primaria pulsione all’aggredire, mentre dal cielo cade la tragica nevicata di pagliuzze nere, profezia di sventura che sommergerà tutto, e dalla buca giungono le saettate micidiali degli ottoni. Ragazzi illusi dall’idea di un istante di ebbrezza, ma in realtà già risucchiati nel gorgo nero che dalla vita conduce alla morte. Di loro, del loro passaggio (nei perfetti costumi di Carla Teti, esaltati dalle scene di Paolo Fantin), non rimarranno che scarpe vuote ricolme di una cenere color pece. Scarpe consunte, conservanti l’impronta di chi le ha abitate, sopravvissute a chi credeva di servirsene. Polvere sei, polvere diventerai. Una polvere scura che si farà nera piramide giganteggiante alla luna, creatura astratta, assurda nella sua ostentata sfida al cielo: grandiosa rappresentazione di una gloria vana costruita su una stratificata provvisorietà, maschera impietosa di un potere che il tempo – il vento, la pioggia, la storia – presto o tardi consumerà. E anche il trionfalismo che salutava la campagna condotta dal valoroso Radamès ai danni del popolo etiope catturato, esibito in parata, strattonato come animale condotto al macello, spogliato e rasato come in ogni tempo si usa fare quando si vuole fare del simbolo l’ennesima arma di sopraffazione, aveva il profumo decomposto di una triste, amarissima mascherata. Sullo squillo (non impeccabile, unico neo, a voler fare quelli che puntualizzano, in un’esecuzione sontuosa che non dava scampo alla distrazione) delle celeberrime trombe, a sfilare di fronte al Re d’Egitto nelle vesti di Sindaco, con tanto di autorità al seguito, era la triste rassegna di ciò che resta di uomini. Reduci disorientati, invalidi, spettrali nelle vuote espressioni di visi non più abituati a ciò che è umano. Solo la mediocre sicurezza del Re, un puntualissimo Alexandros Stavrakakis, e l’incrollabile fede nelle cose terrene di Amneris, una Judit Kutasi che, nonostante una dizione non perfetta, giganteggiava per autorevolezza e granitica vocalità con la magnifica Aida di Elena Stikhina nel lavoro di scavo sul personaggio, possono gioire di questa desolante carnevalata. Ma in fondo, personaggi di terra, concreti e incapaci di guardare oltre le logiche umane sono anche Amonasro e Ramfis, rispettivamente interpretati da uno statuario George Petean, gran smalto e piena padronanza della scena, e da Alexander Kὂpeczi, a cui l’impronta registica dipingeva i tratti di sanguinario sgherro al servizio del potere più becero, incaricato di uccidere il re degli etiopi a colpi di pistola e di prendersi, senza chiedere il permesso, l’amore per Amneris. Perché il primo territorio conteso è il cuore. Lì infuriano le battaglie più crudeli. Anche in buca, la consueta tronfia magniloquenza del quadro scorreva via agile, sliricata, come a dire che il baricentro di questa vicenda è altro, è altrove. In primis, nella solidarietà tra disperati che solo le donne sanno ordire, con mense improvvisate e canti propiziatori agli dei, resi con accorata semplicità, propria di chi si affida al mistero della fede. E, certo, nella capacità che solo l’amore ha di immaginare spazi alternativi, di uscire dalla cornice, ritagliando anche in uno scenario di guerra lo spiraglio per una riconciliazione. L’ultima scena, emblematica, riscriveva la storia, con i due amanti non morti ma danzanti, in un’onirica festa all’ombra della nera piramide, con Aida nell’abito da sposa recuperato dalla madre, recuperato da un cunicolo sotto alla piramide. “…una storia non dura che nella cenere/ e persistenza è solo l’estinzione”, canta Montale. Per Michieletto, tra l’uno e l’altro capo di questi assoluti, tra persistenza ed estinzione, si fa largo l’esistenza. Applausi meritatissimi.
Elide Bergamaschi