L’ultimo “ballo in maschera” segna la rinascita di Graham Vick

Foto Ricci

PARMA L’uomo ci ha lasciati. Il pungolo del suo genio resta, vivissimo, tra noi. Con “Un ballo in maschera” che lo scorso 24 settembre al Teatro Regio ha aperto ufficialmente il Festival Verdi 2021, Parma piange ma soprattutto celebra Graham Vick con l’ultimo frutto della sua produzione. Un frutto tragicamente e prematuramente caduto, insieme al suo artefice, lo scorso luglio, per complicazioni da Covid, quindi raccolto e portato a maturazione dall’allievo Jacopo Spirei. Fedele al suo intento originario in cui spettacolo ed inesausta ricerca sulle fonti sono intrecciati a doppio filo, il Festival ha riesumato il libretto del Gustavo III – prima stesura di quello che sarebbe diventato il Ballo, inevitabilmente bocciata dalla censura borbonica – riportando di fatto la vicenda da Boston alla Svezia delle origini; a scorrere tra le pieghe del testo primigenio, per l’ascoltatore attento, una filigrana di implicazioni, sfumature che gettano una luce più libertina e torbida sulla figura dell’urbano sovrano e, con esso, sul clima dell’intera corte, interrogando(ci) sul tema dell’identità, dell’io, del non io. La scena su cui si apre il sipario – una sala spoglia circolare dalle austere tinte nordiche color giallo acido – sembra ribaltare la prospettiva cronologica e portarci dritti alla fine, a quello sguainare di pugnali che decreterà la fine delle danze: un catafalco dominato da una scultura bronzea di giovane alato, attorniato da dolenti dame in nero dalle cui velette spuntano, a sorpresa, folte barbe. Una veglia funebre sessualmente ambigua e sinceramente commossa per un re morto ammazzato; un dolore sobrio e privato che l’occhio indiscreto del mondo sulla vita di un personaggio di Stato – una sequenza di porte invisibili, una galleria di finestre – lega inestricabilmente alla dimensione pubblica. Il Ballo di Vick è la sovrapposizione di due realtà che sembrano negarsi ed ignorarsi, ma che trovano in quella scena nuda – il cui unico movimento è quello della pedana circolare su cui scorrono come nastri persone e sedie, comparse di una vita in cui tutto passa e tutto torna – il doloroso punto d’incontro. Se lo spazio superiore, con la sua elegante galleria di comparse, è il regno della ragione, l’illuminato consesso di un possibile Parlamento, in basso, nella suburra, a sovrintendere è Ulrica, sovrana custode dell’inconfessabile umano, protettrice benevola di giovani marcantoni dai pettorali esibiti e dal fisico strizzato in intimo color carne, come in una storica pubblicità di Gautier, che solo in quel non luogo possono liberarsi dei soffocanti lacci del giudizio ed essere se stessi. Senza freni, senza confini. Eppure, luogo di giudizio è anche quello: lì la sibilla, graziata dal sovrano, scruta le linee della mano ed emette sentenze. Fortuna, o morte. Lì dove le acque sono più scure il futuro appare drammaticamente più chiaro. Non ci sono dubbi: Gustavo morirà per mano dell’amico Anckastrom, marito di Amelia della quale il re è perdutamente innamorato ed in nome della quale Verdi scrive una delle pagine più straordinarie del suo catalogo. Nessuno lo direbbe. Nel mondo in superficie tutto è leggerezza, commedia, con il paggio Oscar (una smagliante Giuliana Gianfaldoni) che condisce di arguzie le giornate e che organizza un ballo “splendidissimo” tutto eccessi, lustrini, ostentazione. Più in profondità covano le braci rancori, vendette, tradimenti che, nella vita così come nella morte, vedono il privato ed il pubblico inestricabilmente abbracciati. A dar fiato e profondità, in questo Ballo è la conduzione vaporosa ed al tempo penetrante di Roberto Abbado, alla testa di una sempre valorosa Filarmonica Toscanini; sotto la sua bacchetta, la più “mozartiana” delle creature verdiane, la più mirabilmente fragile nel conciliare in una continua trascolorazione gli opposti mondi della commedia e della tragedia, non solo riluce nelle sue singole sfaccettature ma soprattutto respira dell’intima, nobile complessità che caratterizza l’intero prisma. Un teatro degli affetti, del potere, dell’amore mancato e perduto che nello spazio di una battuta vivono e muoiono, in un gioco di avvincente mutevolezza. Un teatro della vita. Piero Pretti disegna con la solita naturalezza un Gustavo baldanzoso e brillante, contrappuntato dal monolitico Anckastrom di Amartuvshin Enkhbat; per entrambi, una prova pienamente convincente. Pregevole vocalità, bella emissione e fraseggi preziosi; forse a mancare, qua e là, è per entrambi una maggiore duttilità nello scavo introspettivo che consentirebbe al loro intimo duello di affiorare in tutta la sua dolorosa bellezza. Sontuoso il comparto delle voci femminili: la Amelia adamantina di Anna Pirozzi (nelle repliche sarà sostituita da Maria Teresa Leva), svettante in ogni zona, addentrata nelle pieghe più intime del suo tormentato personaggio, e la Ulrica di Anna Maria Chiuri, perfetta nel declinare con intelligenza ed esperienza il ritratto di una donna a tutto tondo: non macchietta folkloristica ma femmina, sapiente seduttrice, arcana incantatrice, scenicamente e vocalmente strepitosa. Come sempre da applausi il Coro, istruito da Martino Faggiani. L’1, 8 e 15 ottobre si replica.
Elide Bergamaschi