La Madama Butterfly del Ponchielli in un crescendo di emozioni

CREMONA  Eccoci arrivati. Con il 2024, le attese celebrazioni del centenario pucciniano possono finalmente prendere avvio. Nei teatri della provincia lombarda, la festa aveva avuto un gustoso antipasto, lo scorso giugno, al Grande di Brescia. Ora, al riparo del torrido caldo di quella sera, la Madama Butterfly firmata da AsLiCo, nella rivisitata versione in tre atti del 1904, trionfalmente presentata proprio al pubblico bresciano, a riparare precipitosamente il clamoroso fiasco ottenuto poco prima dalla Prima milanese, prosegue la sua navigazione. In questi giorni approderà al Sociale di Como, mentre la scorsa settimana era al Ponchielli di Cremona, prima produzione del nuovo anno. Rispetto al debutto di quest’estate, nelle quali la bella prova di Vittoria Yeo (in sostituzione ad un’indisposta Eleonora Buratto) aveva trovato in buca la consueta autorevolezza di Riccardo Frizza, alcune modulazioni sono state introdotte. Alla testa dell’Orchestra de I Pomeriggi Musicali è questa volta Alessandro d’Agostini, che sceglie un approccio meno serrato e più bidimensionale per affrontare una partitura in cui la lussureggiante trama, nel damasco dei suoi esotismi, è timone assai difficile da governare. Inizialmente, il tutto stenta a decollare e, se da un lato, una lettura scevra da melensi sentimentalismi mette al riparo la bellezza, ben più profonda e sostanziale, del tessuto pucciniano, dall’altro – soprattutto nel fugato iniziale – ne appiattisce leggermente l’iridescenza, confinandone il racconto in un ovattato, astratto paesaggio sonoro che non rende appieno giustizia alla fitta biodiversità che si annida tra le sue pieghe. Ma, sulla lunga distanza, la sua scelta paga. E ad affiorare, pagina dopo pagina, è l’accesa, lapidaria drammaticità della vicenda, i suoi colori netti, la sua luce affilata, quella che – per intenderci – fa dell’irruzione dello zio Bonzo un lampo di terrificante spietatezza, attraversata da una tinta cupa, quasi mahleriana, in un crescendo emotivo che proprio la sottrazione contribuisce ad esaltare. Lentamente, ma inesorabilmente, affiorano anche le screziature, i vapori, i preziosismi del tessuto, in cui l’inquietudine serpeggia ovunque e improvvisamente impenna la pagina in vampate di autentico furore. In scena, l’essenzialità della regia di Rodula Gaitanou, ben assecondata dalle luci di Fiammetta Baldiserri e, soprattutto, dagli elegantissimi costumi e scene di Takis, nella quale la modesta casa di Butterfly sembra mimetizzarsi nel saliscendi della collina e confondersi con l’orizzonte del cielo, si muove nella stessa direzione rispetto alla buca. Pochi dettagli; più che elementi, segnali di ciò che non è, di ciò che manca. Quattro pali conficcati nel terreno che dicono i confini dello spazio dei due sposi, diventato poi lo spazio di un’infinita, interminabile attesa. Uno spazio incompiuto, mancato, a cui la parete di fondo altro non è che una tenda dalla quale, impotente, lo spettatore assisterà al gesto estremo di Cio Cio San, quando tutto è ormai perduto e l’amato, di ritorno ma questa volta con moglie americana, sta per sottrarle anche l’amore del piccolo figlio, l’unico bene rimastole. A collegare il mondo della ragazza a quello di fuori è un ponticello. Da lì Butterfly scruterà, senza mai cedere allo sconforto, il mare, alla ricerca di una nave battente bandiera americana. Ma, dalla scena, il mare è lontano. È un miraggio del pensiero, affidato all’incrollabile fiducia che la piccola donna ripone nelle parole del marito. Non potranno mai capirsi, lei e il suo aitante marito. I loro mondi sono troppo lontani. Non basta un generoso sorso di whisky, non bastano le sigarette americane a conciliarli. La scena lo dice, la musica lo scrive sulla pietra. E le citazioni all’occidente trionfalistico e spaccone dell’inno americano altro non sono che stranianti, grossolane intromissioni, maldestre invasioni di campo di chi calpesta un fiore e nemmeno se ne accorge. Federica Vitali è una Butterfly torreggiante. Verginale e pudica quando va incontro al suo sposo, che accetta e abbraccia come un dono del destino; incrollabile nel suo intento di tenere accesa la fiamma della speranza, a dispetto dell’evidenza. La sua vocalità, verticale anch’essa, cristallina nell’emissione e nell’articolazione, sembra plasmarsi ad arte addosso alla figura minuta e granitica del personaggio, inseguirne ogni pensiero e dare ad esso voce e tinta. Accanto a lei, da un lato la Suzuki di Asude Karayavuz conferma le sue già apprezzate doti nello scolpire con bella autorevolezza il profilo deciso e devoto della fedele serva di Butterfly, dall’altro il Pinkerton di uno smagliante Riccardo Della Sciucca, spavaldo e sempre luminoso nel punteggiare, con assoluta facilità, i tratti del mascalzone seduttore. A completare il cast, l’ennesima bella prova di Devid Cecconi, ancora una volta pienamente convincente nel dare al suo Sharpless la statura e la morbidezza del console americano di stanza a Nagasaki, e quelle, non meno efficaci, del perfido Goro e dello zio Bonzo, rispettivamente Giuseppe Raimondo e Fulvio Valenti. Applausi generosi e meritati a tutto il cast, con un particolare riconoscimento al bravissimo Dolore impersonato dal piccolo Enea Piovani.

Elide Bergamaschi