Una Traviata senza ciprie nè velluti genera perplessità

CREMONA L’inconfessabile fa paura. Turba, conturba, ma soprattutto disturba. In teatro come nella vita. In scena provoca clamori, in loggione scatena bordate di indignazione. Quarto titolo in cartellone, il 2 e 4 dicembre scorsi, la verdiana Traviata ha richiamato al teatro Ponchielli di Cremona un pubblico se possibile ancor più numeroso del solito. Tutti lì ad aspettarne le pagine celeberrime, ormai assurte ad immancabili tormentoni nei concerti di gala: il brindisi iniziale, il folleggiare spavaldo di Violetta, l’aria cinica e compassata di padre Germont, l’addio alla vita di una donna ormai alla fine dei suoi giorni. Tutti lì, a vivere e a rivivere la più pop delle creature della cosiddetta Trilogia Popolare. Ma, a sorpresa, niente ciprie né velluti: nessuna concessione alle svenevoli morbidezze di tanta tradizione. Nella regia di Luca Baracchini, musicalmente tradotta con puntuale aderenza dalla concertazione (altrettanto concreta, ma in più momenti sin troppo spiccia, sempre in avanti rispetto al palco, senza troppo badare ai chiaroscuri né alle profondità di una così stratificata partitura) di Enrico Lombardi, alla testa dell’Orchestra de I Pomeriggi Musicali, il dramma che muoveva questa Traviata si insinuava asciutto, sliricato, prima nei luoghi di una movida contemporanea, tutta cristalli e neon, vizi e scollature, poi nell’interno qualunque di una casa in stile Ikea, carina quanto provvisoria, fatta apposta per essere montata e smontata con la stessa velocità. Nei primi si beve, si fuma, si ammazzano serate uguali a sé stesse, tra sesso facile e noia malcelata. Tutto sembra scorrere fluido, rituale quanto equivoco: le parole vuote, gli sguardi persi su un’umanità stereotipata, il languido scivolare di creature avvenenti dalla sessualità ambigua. Nel secondo, la luce è quella diurna che filtra da una finestra della cucina; le pareti sono da tinteggiare, i mobili – un tavolo, un letto, qualche generico quadretto alla parete – dicono di una coppia giovane, con l’entusiasmo degli inizi. Qui, in questa seconda vita conquistata al prezzo di una camelia donata come pegno d’amore, tutto sembra possibile, anche il lasciarsi alle spalle la morsa di una finta felicità. Eppure, è qui che Violetta abbassa lo sguardo e acconsente alla propria condanna, accettando quasi senza colpo ferire di rinunciare a quell’unico amore giunto tardivo, quando ormai lo stoppino della vita comincia ad accorciarsi, morso dalla malattia che avanza. Qual è l’arma segreta di papà Germont (qui scolpito con una puntualità non scevra da qualche genericità da Vincenzo Nizzardo)? Quale forza persuasiva nascondono le sue parole con cui le chiede (le ordina?) di sparire dalla vita del figlio per non infamare il buon nome della famiglia? Non certo un passato sentimentalmente disinvolto, non certo una femminilità vissuta con ostentata spregiudicatezza. Nel 1853, ma non certo oggi. In questo taglio registico, la chiave è nella scena iniziale: una figura in abiti femminili, davanti a uno specchio. Si guarda, si scruta, si spoglia. E, via la camicetta, via la gonna, questa figura si scopre uomo. Un uomo fragile, sensibile, visibilmente tormentato da un’inquietudine che lo divora. È Violetta, o meglio, è l’involucro di Violetta, prima di una metamorfosi che lo porterà, in abiti maschili rubati a Marlene Dietrich, a giocare alla seduttrice nel corpo di una donna. Eccolo, l’inconfessabile. Il tabu che il nostro tempo si ostina a rimuovere, a ignorare, a sublimare per non doverci inciampare contro. E l’ipocrisia del bel salotto borghese in cui Flora (la brava Raut Ventorero) allestisce una festa con tanto di zingarelle queer con frustino è una trasgressione parcheggiata nel ristretto perimetro di una gabbia dorata, con luci artificiali. Un non luogo in cui vale tutto. Fuori, nessuno deve sapere, nessuno deve sospettare. La lacerazione di una creatura perennemente abitata dal proprio doppio è il pedale di continuo di questa regia che vede la protagonista continuamente visitata dalla sua proiezione al maschile. Lei è lui, e viceversa; in questo groviglio inscindibile scorrono, su due corpi che in realtà sono uno, l’esaltazione dell’innamoramento e il baratro della propria auto-condanna, accettata come si accetta l’inevitabile. Ha lo stesso color bluastro dei cocktail serviti a fiumi nel locale di Douphol, ma a Violetta deve sembrare amara, amarissima, la medicina prescrittale dal dottor Grenvil (il puntuale Nicola Cianco) contro la tisi che galoppa; lei – una Francesca Sassu coraggiosa e convincente ma piuttosto algida nello scavo interpretativo, con qualche sfarfallio nell’intonazione – la ingoia d’un sorso, d’impeto, quasi fosse veleno con cui accelerare la fine, mentre all’unisono il suo alter ego (un intenso Giovanni Rotolo) si lancia contro lo specchio che campeggia sul fondo e, con la stessa rabbiosa disperazione, si tuffa in un disperato autoerotismo (o un tentativo di autoevirazione?). Sembra detestarlo, quel corpo sbagliato, e con esso sembra voler cancellare la figura che lo specchio, impietoso, gli restituisce. Alla fine, si torna sempre lì. All’immagine proiettata, quella a cui non si sfugge. “Amati”: contro quel vetro, con segni di vernice come pennellate di sangue, l’alter ego di Violetta traccia l’imperativo supremo, mentre lei si appresta a congedarsi, con un estremo canto d’amore, dal suo Alfredo, un Valerio Borgioni elegante, dal timbro naturale e seduttivo, al netto di qualche sbavatura nell’intonazione e di un legato non sempre impeccabile. Un motto perfetto per i festini da Douphol, ma soprattutto un monito personale, un estremo appello a conservare intatta la propria immagine interiore, al riparo dagli assalti del giudizio. Se il primo atto in questa Traviata è sguaiatamente esibito, pubblico, ostentato, con bella scelta, l’ultimo è un dramma totalmente interiore, consumato dietro una tenda che alona i contorni e i dettagli. La scena vista da lontano. Come a dire che non ci riguarda, non ci deve riguardare. Tanto il ricongiungimento, tardivo, appunto, tra i due innamorati, alla presenza di papà Germont, medico e Annina (la discreta Sharon Zhai), ad un soffio dalla morte di Violetta, quanto l’assistere impotenti, probabilmente straziati dal rimorso, al suo spegnersi. Sono loro nell’oscurità quando Violetta verrà visitata dalla morte. Lei è invece illuminata, al centro della scena, finalmente libera, finalmente in pace, con il suo doppio vicino al suo corpo, ormai inerte. La chiusura del cerchio, la pace eterna, dopo tanto dolore. Se alla prima di venerdì i fischi erano piovuti a secchiate sulla regia, un altrettanto torrenziale trionfo si è abbattuto sulla pomeridiana di domenica, a dispetto dell’età media non certo da debuttanti. Tanti gli over 60, per non dire 70, con immancabile sottofondo cantato delle arie hit, con buona pace dei vicini di poltrona, noi compresi.
Elide Bergamaschi