Elif Shafak, la memoria è responsabilità. Ricordare è un dovere

MANTOVA Elif Shafak, la scrittrice turca accusata di attacco all’identità del suo paese perché nel romanzo “La bastarda di Istanbul” aveva apertamente citato il genocidio armeno, è arrivata a Mantova per presentare il suo nuovo lavoro, “I miei ultimi dieci minuti e 38 secondi in questo strano mondo”, finalista al Brooker Prize (premiazione a Londra il prossimo 14 ottobre).
Come nasce il titolo del libro?
“Alcuni studi canadesi hanno dimostrato che nel momento della morte di un individuo l’attività cerebrale persiste quando invece si ferma quella cardiaca. Sono i dieci minuti del titolo a cui ho aggiunto trentotto secondi. Il cervello è quindi l’ultimo organo a cedere ed è anche la sede della memoria. Cosa ricorda il cervello in quei dieci minuti? La protagonista del libro è una prostituta, brutalmente assassinata e gettata in un cassonetto della spazzatura. In quel lasso di tempo lei ricorda il suo passato, la storia della Turchia attraverso un’emarginata”.
Quanto è importante la memoria per la società di domani?
“La memoria è responsabilità. Ricordare è un dovere. Fare i conti con il passato significa poter parlare della storia, dei suoi momenti d’oro e di quelli bui. Il popolo turco non ha saputo o voluto farlo. È quindi compito di noi scrittori ricordare il passato per analizzare il presente e avere un futuro migliore”.
È questo il compito della letteratura?
“Negli ultimi anni abbiamo assistito alla Brexit e all’ascesa al potere di Donald Trump. Anche per questo alcuni scrittori hanno sentito il bisogno di uscire dalla propria torre d’avorio e diventare cittadini impegnati. La letteratura deve ri-umanizzare ciò che è stato de-umanizzato. Sono importanti le emozioni e quella che io definisco l’Intelligenza emotiva, ossia la mente unita a cuore e saggezza”.
Come si costruisce la saggezza?
“Stiamo vivendo l’era dell’ansia del prossimo. C’è troppa informazione e poco sapere. Questo perché il sapere, e quindi la saggezza, richiede tempo per conoscere, per studiare, per leggere, per comprendere”.
Nei suoi romanzi le donne hanno sempre dei ruoli da protagoniste. Perché?
“Non affronto la questione femminile in maniera teorica ma di vita realmente vissuta. Sono stata cresciuta da mia madre, una donna divorziata, e mia nonna che hanno lottato contro i pregiudizi della tipica famiglia patriarcale turca. Hanno però avuto la solidarietà di altre donne, si sono aiutate e sostenute. Nel momento storico che stiamo vivendo c’è ancora più bisogno di questa solidarietà. In Turchia abbiamo fatto notevoli passi indietro. È aumentato il sentimento nazionalista e islamico e quindi misogino e omofobo a cui corrisponde, purtroppo, un arretramento dei diritti delle donne e delle minoranze”.
Come per i tanti giornalisti imprigionati in Turchia?
“La Turchia è la più grande galera del mondo non solo per i giornalisti ma anche per gli scrittori e per chiunque lavori con le parole. La libertà dei giornalisti, insieme a quella dei media, è la prima che è venuta meno disgregando la democrazia. Gli operatori della comunicazione hanno il compito di mettere i governanti davanti alle loro responsabilità. Il giornalismo fa informazione ma promuove la conoscenza, il sapere. Il rischio è il giornalismo ‘slow’, superficiale. I populisti sono capaci di arrivare tramite le emozioni. Per questo è importante formare quell’intelligenza emotiva fatta di saggezza, mente e cuore. Ma, per farlo, occorrono giornalisti liberi”.
Tiziana Pikler