Storie di tifo. Dalla voce d’autore alla nostra Voce

corazon

di Chiara Sanguanini

1ª puntata
… il fatto è che quando gattonavo appena, mio padre già mi portava al campo sportivo come una busta della spesa… All’inizio mi piacevano i colori delle divise, solo quelle guardavo, specie dei calciatori più veloci… erano così veloci che
i colori delle maglie era come se restassero indietro a fare strisce nell’aria. Non mi interessava
chi vinceva e chi perdeva,
ero ancora innocente allora…
(FUBBÀLL di Remo Rapino)

Ero piccola, 6-7 anni o giù di lì.
Mio padre, abbonato al Martelli in tribuna laterale, cominciò a portarmi quasi ogni domenica allo stadio. Mi sedevo spesso sui gradini, seggiolini vuoti non ce n’erano, e un po’ mi annoiavo. Il Mantova allora era in serie A, incontrava le grandi squadre delle grandi città, ma che potevo capire?
Mi piacevano le maglie, i momenti di festa, l’esultanza dopo un gol; molto meno la faccia scura di mio padre dopo una sconfitta. Ma allora che potevo capire?
Ricordo Giagnoni, mito indiscusso in famiglia, e, più avanti, Schnellinger, amato Schilingi tedesco. Ricordo Spelta, Toschi, Tomeazzi, Blasig e Montorsi.
Annate diverse, sempre al grido di forza Mantova, che in quegli anni alternava la massima serie alla B.
Altri tempi.
Lo stadio era sempre pieno, 99% di tifo maschile, pochi cori e tanti, ma tanti commenti nel nostro dialetto, alcuni feroci, come oggi, altri terribili, ma mi facevano ridere. Credo di aver imparato così le prime parolacce. Guai a ripeterle a casa…
Quello che ho capito poi è che un virus incurabile mi è entrato in testa, o forse in tutto il corpo, e ancora oggi, 60 anni dopo, gli scienziati non hanno trovato il vaccino. Pazienza…