MANTOVA Per cinque anni, stando al quadro accusatorio, era stata costretta a subire ogni sorta di violenza e vessazione fino a quando, ormai esasperata, aveva trovato il coraggio di denunciare il proprio compagno. In manette, per maltrattamenti in famiglia e lesioni personali aggravate, era così finito nel 2020 un 36enne italiano residente nel capoluogo virgiliano. In tale circostanza, il 24 luglio di quell’anno, all’indagato gli era infatti stata notificata dai carabinieri di via Chiassi un’ordinanza di custodia cautelare in carcere disposta dal gip su richiesta della procura di via Poma. Secondo il novero delle imputazioni a lui ascritte l’uomo – già a processo per fatti analoghi ma relativi ad un periodo più risalente e antecedente all’entrata in vigore della legge sul cosiddetto “codice rosso” – si sarebbe reso responsabile di numerose e reiterate aggressioni, sia verbali che fisiche, perpetrate in ambito domestico ai danni della propria convivente. Tra i vari episodi addebitatigli, sovente messi in atto sotto l’effetto di sostanze stupefacenti nonché alla presenza del figlio minorenne del la persona offesa, diversi quelli che avevano visto il 36enne offendere, ingiuriare e minacciare di morte la donna, sempre per questioni afferenti i futili motivi. Già dal primo anno di convivenza, ad esempio, in occasione di numerosi litigi tra i due, l’avrebbe percossa con calci e pugni, afferrata per i capelli, oltre a lanciarle addosso sedie e suppellettili per impedirle di uscire di casa e poter chiedere aiuto. In altre occasioni invece, la vittima sarebbe stata altresì inseguita e colpita con un bastone di le gno nonché, addirittura, picchiata col guinzaglio in maglie di ferro del cane. Un lungo elenco di contestazioni queste che gli erano costate il rinvio a giudizio immediato davanti al tribunale in composizione collegiale, a fronte anche della sua scelta di non avvalersi di riti alternativi. Una vicenda giudiziaria questa conclusasi ieri in primo grado con la sentenza di condanna per l’imputato a tre anni e due mesi di reclusione, oltre all’interdizione dai pubblici uffici per un periodo di cinque anni, a fronte dei quattro anni e sei mesi chiesti in requisitoria dal pubblico ministero Elisabetta Favaretti.