Mao Fujita delizia il pubblico del Festival de Piano de La Roque d’Anthéron

CREDIT Valentine Chauvin

LA ROQUE D’ANTHERON Il pianismo di Mao Fujita è una Wunderkammer di mirabilia. Oggetti dalla preziosità tanto esclusiva quanto dissimulata, prelibatezze servite con il cerimoniale di un ossequio tutto orientale. Un mondo di miniature organizzate in un percorso di visita che, da solo, racconta la statura e la cultura del collezionista. Al Festival de Piano de La Roque d’Anthéron edizione 2024, lo scorso 11 agosto, il pianista giapponese ha letteralmente furoreggiato in un impaginato di fattura finissima, che salpava dal Mozart della Sonata KV 333 per approdare, attraverso un itinerario quanto mai avvincente, alle otto Fantasie che compongono la schumanniana Kreisleriana op.16. Nella luce ormai morente della prima serata al Parc du Château de Florans, quando le cicale spengono via via il loro canto forsennato, l’affresco mozartiano riluceva di un riflesso d’opale, disegnato in punta di fioretto, sottovoce, tra arabeschi e riccioli improvvisativi chiamati a dare al riaffacciarsi delle idee una luce nuova: magnifico, nell’aristocratica bidimensionalità da bozzetto d’antan, volutamente manierato, tra azzimi e immenso garbo, nel cameristico gioco di una digitalità filiforme, come si conviene ad un ascolto cameristico, destinato ad un uditorio clto, in un palazzo dell’Europa di fine Settecento. La ben differente dimensione dell’ascolto reale, en plein air, incastonata nella cornice mozzafiato di platani secolari e di un soffitto trapuntato di stelle, qualcosa toglieva all’incanto delle intenzioni – la profondità di suono, lo squarcio drammatico del secondo movimento, la bizzosa, impercettibile ironia ovunque serpeggiante – ma, nel finale del terzo movimento, là dove Mozart osa insinuare nella cordiera l’ampiezza e il respiro di un’orchestra immaginaria, a dialogare con il solista, trovava finalmente l’assetto. Un tempo necessario anche all’ascoltatore, mai abbastanza abituato a tarare orecchie e pensiero su simili finezze da alta arte orafa. La stessa cristallina leziosità, incapricciata da dardeggianti dissonanze di ascendenza quasi novecentesca, ritornava nei dodici cammei di “Ah vous dirai je maman”, ma questa volta il gioco mozartiano era svelato, e il tema con variazioni altro non era che il canovaccio, la tela preparatoria, per la rappresentazione di un teatro malizioso, sagace, imprevedibile, che nello stereotipo dello spunto – un tema infantile, marcatamente banale – ordisce un affresco via via più profondo, articolato, irresistibile. Tutto, nel pianismo di Fujita, suona facile, giocoso, estemporaneo. Il pericolo del vuoto su cui danza è dissimulato da un’innata, divina leggerezza, mentre assume, stanza dopo stanza, una propria sfaccettatura, il valore assoluto di pezzo unico che si impone, senza strepito, nella vetrina delle meraviglie. Come il raro Les Fêtes, di Déodat de Séverac – pagina dall’anima acquatica, vaporosa, striata di accenti folkloristici che ne accendono il profilo di un colore vivido, sensuale, incastonato nel percorso d’ascolto – inanellato quasi senza soluzione di continuità alle acque più inquiete, più profonde, della chopiniana Barcarola op.60, gestita con un senso della narrazione di nobile, sorgiva eleganza, con il legato del canto che scorreva inesorabile fino alla foce, sollecitato dal cullante ritmo ostinato che, in un avventuroso periplo, portava inesorabile al tumultuose del finale, dove a pulsare non è più il pacato dondolio di acque dolci ma il grandioso colpo di vento del mare aperto. A chiudere la prima parte del concerto, un’altra chicca: la Sonata op.1, folgorante esordio di un sedicenne Sergej Prokof’ev, con Fujita che dalla sua faretra estraeva le frecce della bizzarria e di un volume di suono fino ad allora insospettato. Lo stesso sontuoso bagaglio di mezzi si sarebbe ritrovato, esponenziale, estremo, nella sublime bipolarità dell’op.16 di Schumann, già nella cavalcata selvaggia della prima Fantasia, nuda nel solo filo di pedale, articolata quasi a far sanguinare il tasto, come a cercare, nella disperata tensione che ne pervade le linee, quel gioco di polifonie stringenti, dolorose, quel contrappunto che, nella poetica schumanniana, debitrice del messaggio di Hoffmann, è manifestazione della vita, prima ancora che dell’arte. Con un pianismo di scintillante bellezza, seguendo il suo proprio rituale in cui anche il gesto pianistico sembrava aderire alla totalizzante immedesimazione con l’idea musicale, in un cesello che svelava le fitte trame di questo polittico, Fujita esaltava, su stretta indicazione del dettato schumanniano, i tratti fantastici, irrazionali, grotteschi di un’opera in perenne bilico tra maschera e volto, tra confessione e dissociazione dell’io, irripetibile sintesi dell’esaltata temperie che caratterizza la prima produzione del compositore. Così, all’avvio scalpitante del primo brano, l’estatica contemplazione del secondo, con i due Intermezzi incastonati al suo interno, coglieva di sorpresa per il ruvido scarto emotivo. E ancora, il vertiginoso alternarsi di tensione e distensione, di sogno ed incubo, del terzo pannello, seguito dalla densità lancinante del quarto, dal clima rapsodico del quinto, preludio al clima di buia meditazione del successivo Molto lento e al gioco complementare – contrappuntistico, in senso hoffmanniano – dei due pezzi conclusivi, continuamente sospesi tra impeto e resa, davano ulteriore luce e incanto alla Wunderkammer. Un’esposizione memorabile, suggellata dall’ineffabile nostalgia del Lied ohne Worte op. 62 n°2 di Mendelssohn e da due Improvvisations di Francis Poulenc, tra cui la seducente “Hommage à Edith Piaf”.

Elide Bergamaschi